L’Anemia che Vien dal Mare

ESTRATTO DALLA TESI DI LAUREA IN STORIA di

Iandola Francesco

L’anemia che viene dal mare©

Per ogni informazione, le note e i riferimenti bibliografici contattate la Fondazione De Marchi che vi metterà in contatto con l’autore. Tutti i diritti appartengono a Francesco Iandola


La talassemia dall’alba della civiltà occidentale a oggi


1. Rapporto talassemia-malaria

La talassemia, malattia ereditaria, oggi ampiamente diffusa in una vasta parte del Mondo, colpisce in alcune zone oltre il 20% della popolazione. Questo dato, unito alla gravità della malattia e alla previsione di una sua ulteriore diffusione nel Mondo, rendono la talassemia un problema di estrema attualità.

L’attualità di questa malattia non significa però che la talassemia sia di recente origine.

Malgrado la sua identificazione risalga solo ai primi anni del nostro secolo, questa malattia è compagna dell’uomo da almeno 10.000 anni.

Questo vuol dire che la dove sorsero le più fiorenti civiltà del passato, quasi sempre, vi era la talassemia.

Da allora la malattia, attraverso fasi di maggiore e minore diffusione, giunse fino a noi, tramandataci da quelle civiltà al pari della loro cultura, e insieme al loro patrimonio genetico.

Allo stesso modo della cultura occidentale, anche la talassemia nacque, con gran probilità, sulle coste del Mediterraneo, da qui, col passare dei secoli e grazie alle migrazioni e agli scambi fra diverse popolazioni, è giunta ai giorni nostri a interessare più di 200 milioni di persone sparse in quasi tutto il Mondo.

Volendo ora ricostruire le vicende della nascita e della diffusione della talassemia nel tempo e nello spazio, è importante prendere in esame la stretta relazione che esiste tra questa malattia e la malaria, altra grande malattia del passato, ancora oggi presente in vaste zone della Terra.

In breve, il rapporto che lega queste due malattie così diverse, la talassemia malattia genetica e la malaria malattia infettiva, deriva dal fatto che il soggetto talassemico, sia esso omozigote o eterozigote, risulta molto più difficilmente contagiabile dalla malaria rispetto ad un soggetto normale.

La talassemia, pur essendo causata da un difetto genetico che in condizioni ambientali normali risulta svantaggioso e sarebbe quindi eliminato dalla selezione genetica, ha rappresentato invece, in un ambiente colpito dalla malaria, un notevole vantaggio e ha potuto in tal modo diffondersi largamente.

In pratica una coppia di genitori portatori sani di talassemia, perdeva mediamente un figlio ogni quattro in quanto talassemico omozigote; questo significava che, specie in tempi in cui la mortalità infantile era già molto alta per altre svariate cause, per questi genitori era più difficile rispetto a soggetti normali avere dei discendenti e quindi trasmettere il propio difetto genetico.

Tale difetto si sarebbe perciò estinto nel giro di poche generazioni dalla sua comparsa. Al contrario, in un ambiente duramente colpito dalla malaria, il difetto talassemico si traduceva in un grosso vantaggio: se infatti la coppia di genitori portatori di talassemia da una parte continuava a perdere un quarto dei propri figli per la talassemia, dall’altra parte i rimanenti tre quarti risultavano protetti dalla malaria; malattia che di sicuro portava via alle coppie di genitori sani ben più di un quarto dei figli. In pratica, attraverso la mutazione genetica responsabile della talassemia, è come se il nostro corredo genetico avesse scelto di sacrificare qualche individuo malato per poter offrire, in ambiente malarico, più possibilità di sopravvivenza agli altri.

Per tale motivo in ambiente malarico le coppie di talassemici eterozigoti avevano maggiori probabilità delle coppie sane di avere una discendenza e perciò l’anomalia genetica poté ampiamente diffondersi proprio nelle zone malariche.

Si può quindi dire che condizione necessaria affinché la talassemia potesse diffondersi era dunque la presenza della malaria. Ciò in virtù del fatto che la vasta diffusione della talassemia può essere giustificata solo dalla presenza della malaria, non essendo infatti stati fino ad ora identificati altri vantaggi che spiegherebbero una sua sopravvivenza ed essendo escluso che i soggetti eterozigoti possano aver un indice di fertilità più alto degli individui sani.

Perciò nel cercare le linee di diffusione della talassemia si deve sempre tener presente che queste vanno cercate solo in tempi e luoghi in cui vi è testimoniata la presenza della malaria.

Sicuramente nel corso della plurimillenaria storia dell’uomo vi saranno stati svariati casi di mutazione genetica che hanno causato l’insorgere in qualche soggetto della talassemia, ma qualora tale mutazione fosse avvenuta in ambiente non malarico la talassemia quale mutazione nefasta non avrebbe potuto diffondersi nella popolazione e sarebbe scomparsa nel corso di qualche generazione.

Invece, nel caso in cui la mutazione talassemica fosse avvenuta in un individuo appartenente ad una popolazione afflitta dalla malaria, la frequenza della talassemia sarebbe cresciuta fino a raggiungere un valore di equilibrio tra il guadagno degli eterozigoti, che rimangono immuni dalla malaria e la perdita degli omozigoti, che non arrivano a riprodursi.

Nel caso poi la malaria, nel corso della storia, fosse stata eradicata dal territorio, la talassemia non sarebbe più stata di alcun vantaggio e sarebbe iniziata un’inversione di tendenza che porterebbe ad una progressiva, se pur lenta, riduzione della frequenza dei soggetti talassemici.

Questa lenta inversione di tendenza, è stato calcolato da Luzzato, Terrenato e Rossi-Mori, porta ad una totale scomparsa del gene malato solo dopo circa 100 generazioni.

A testimoniare la relazione fra la talassemia e la malaria è infine sufficiente confrontare una mappa della diffusione della talassemia nel Mondo con una mappa della distribuzione della malaria fino al secolo scorso; ciò permette di poter immediatamente constatare come le zone di diffusione delle due malattie siano perfettamente sovrapponibili.


2. La malaria

Se dunque la presenza della malaria è una condizione necessaria alla diffusione della talassemia è doveroso vedere brevemente cos’è questa malattia e cercare poi di determinare il periodo in cui essa si è diffusa.

La malaria, malattia infettiva e parassitaria, è provocata da protozoi del genere Plasmodium. Tali protozoi possono essere di quattro differenti tipi: Plasmodium vivax, Plasmodium falciparum, Plasmodium malariae, Plasmodium ovale.

Questi protozoi hanno un ciclo di sviluppo diviso diviso in due fasi: fase sessuata e fase asessuata.

La prima fase si svolge all’interno della zanzara Anopheles, la quale si era precedentemente infettata pungendo un soggetto malato. La seconda fase avviene invece all’interno dell’organismo che è stato infettato tramite la puntura della zanzara. La fase asessuata si svolge in parte all’interno dei globuli rossi e in parte all’esterno di essi.

I ciclici episodi febbrili, sintomo della malattia, sono causati dalla distruzione dei globuli rossi da parte del plasmodio che si accresce a spese di detto globulo e da origine ad un numero di piccoli parassiti variabile da 6 a 32 che determinano la rottura della cellula: tale fenomeno è detto lisi.

La lisi avviene ciclicamente e contemporaneamente in tutte le cellule infettate, provocando le crisi febbrili.

La ciclicità dei fenomeni febbrili varia a seconda del tipo di plasmodio che ha infettato l’organismo.

Il Plasmodium vivax provoca un attacco febbrile ogni 48 ed è responsabile della terzana benigna.

Il Plasmodium ovale causa anchesso attacchi febbrili ogni 48 ore ed è il responsabile di una variante della terzana benigna.

Il Plasmodium malariae provoca invece un attacco febbrile ogni 72 ore, rendendosi causa della quartana.

Il Plasmodium falciparum ha invece intervalli, fra un attacco febbrile ed il seguente, più irregolari, che possono essere calcolati in genere attorno alle 48 ore, ed è l’agente causale della terzana maligna.

Gli attacchi febbrili provocati dalla malaria, causano intensi brividi e aumenti della temperatura fino a 40° C, risolvendosi dopo qualche ora. Il ripetersi di questi cicli finisce col causare danni al fegato e alla milza, provocandone un aumento di volume che viene chiamato epatosplenomegalia. Nei casi più gravi, la malaria può provocare complicanze cardiache, renali e cerebrali che possono portare alla morte del soggetto infettato.


3. Le origini della malaria

La malaria è una malattia antichissima, da sempre legata alla storia dell’uomo le cui origini vanno perciò cercate in quei lontani tempi che videro muovere i primi passi dei nostri progenitori.

Secondo degli studi pubblicati da Garnham nel 1966, circa 60 milioni di anni fa quando, nel Eocene, dopo la scomparsa dei dinosauri si andarono affermando i mammiferi e con essi iniziavano a svilupparsi quei primati da cui un giorno sarebbe disceso l’uomo, fecero la loro comparsa sulla Terra parassiti portatori della forma quartana della malaria.

Milioni di anni dopo, durante il Pliocene o al più tardi all’inizio del Pleistocene, quando cioè circa un milione di anni fa i primi antenati dell’uomo iniziavano a differenziarsi dalle scimmie, si sviluppò l’attuale sotto-gene della malaria noto con il nome di Laverania.

Determinato quando la malaria si sviluppò bisogna ora vedere dove ciò avvenne. Ora non va dimenticato che se la malaria ha seguito l’evoluzione dell’uomo perchè ne ha bisogno per potersi riprodurre è anche vero che essa non può fare a meno della zanzara Anopheles che ne è il vettore.

Secondo studi condotti da Bruce-Chwatt nel 1965 fu l’Etiopia il luogo originario di sviluppo della malaria. Ciò grazie proprio al fatto che in questa regione, grazie al clima temperato, la diffusione della specie umana fu preceduta da quella dell’insetto vettore. Il primo fossile rinvenuto di un insetto alato risale al Giurassico, lontano da noi 150 milioni di anni; in seguito la deriva dei continenti disperse le prime Anopheles, di cui in verità non sono stati trovati fossili, le quali ebbero quindi modo e tempo di svilupparsi in vari gruppi geneticamente diversi fra di loro.

A questa teoria che da all’Etiopia la palma del sito originale di diffusione della malaria si oppose Coatney che insieme ad altri autori ritiene che la malattia ebbe origine nel Sud-Est asiatico nel Pleistocene inferiore, un periodo che va da 1 milione a 500 mila anni fa e che vide l’inizio della diffusione della specie umana in Asia.

Sembra in ogni caso accertato che fu l’Africa il luogo in cui si sviluppò il Plasmodium falciparum mentre in Asia si svilupparono il Plasmodium malariae e il Plasmodium vivax.

In ogni caso, per più di un milione di anni e durante tutto il Paleolitico e il Mesolitico, la malaria rimase un fenomeno circoscritto e di relativa importanza nella vita dei nostri antenati.

La vera rivoluzione avvenne con il Neolitico, cioè quando, circa 10.000 anni fa, la definitiva ritirata dei ghiacci portò mutamenti tanto profondi quanto rapidi nell’uomo, il quale passò da un’economia basata sulla caccia ad un’economia agricola che gli permise di organizzarsi in nuclei sedentari. Le nuove abitudini di vita e il conseguente aumento demografico permisero una notevole diffusione della malaria.

Secondo studi condotti da Livingston nel 1958 le prime popolazioni che dovettero fare le spese con il forte incremento della malaria furono quelle Bantu quando nell’età del ferro introdussero la coltivazione.

La grande diffusione che la malaria conobbe nel Neolitico fu anche dovuta al fatto che i cambiamenti climatici costrinsero l’uomo, in molte regioni della terra, ad abbandonare luoghi diventati inospitali a causa della desertificazione, favorendo nuovi insediamenti in zone temperate e fertili che si erano venute a formare a settentrione.

La malaria si stabilì perciò, sempre insieme all’uomo, in Mesopotamia, in India, nel Sud della Cina, nella Valle del Nilo e da qui si irradiò sulle coste del Mediterraneo. Da questi luoghi nuove migrazioni portarono la malaria nella gran parte dell’Africa dell’Asia e dell’Europa.

Nell’antico Egitto, dove sono state trovate tracce di una civiltà agricola risalenti fino al 5.000 a.C., la malaria era sicuramente molto comune nel sud della Valle del Nilo, una zona che dava accesso a gran parte dell’Africa Tropicale. Era invece sicuramente meno diffusa nella parte più settentrionale dell’Egitto. In questa zona sono state trovate tracce della malattia in alcune mummie in cui è stata riscontrata una splenomegalia probabilmente causata dalla malaria; esiste poi un papiro risalente al 1570 a.C. in cui si fa menzione di febbri e di splenomegalia.

In antichi documenti egizi esistono poi varie descrizioni di rimedi curativi per varie malattie fra cui potrebbe esserci la malaria, sono inoltre stati trovati vari amuleti e talismani utili come magici rimedi contro le febbri.

A testimoniare che in Egitto la malaria non era molto diffusa esistono due descrizioni, la prima di Erodoto, risalente al V secolo a.C., la seconda di Diodoro, risalente al secolo successivo, che sono concordi nel dichiarare che in quel paese gli abitanti godevano di una buona salute. Erodoto ci dice però che in alcuni luoghi dell’Egitto le zanzare erano così numerose che gli abitanti erano costretti a fare uso di reti da pesca per proteggersi dalle punture di tali insetti. Sembrerebbe quindi spettare agli egiziani il primato nell’invenzione delle zanzariere, strumento di prevenzione che in Italia venne introdotto sistematicamente solo all’inizio del nostro secolo.

La Mesopotamia, patria di tante civiltà fra cui quella sumera, quella assira e quella babilonese fu uno dei primi luoghi della terra a conoscere lo sviluppo di una fiorente civiltà agricola.

Grazie alla sua fertile posizione fra i fiumi Tigri ed Eufrate, in questa regione sorsero fin dalla preistoria popolose città, la prima fra queste fu Eridu che già nel 4.000 a.C. poteva contare diverse migliaia di anime. A questa città si aggiunsero poi Uruk, Ur, Lagash, Nippur, Mari e Brak.

Tutti questi nomi stanno a dimostrare come in questa regioni vi fosse fin dall’antichità un’alta densità di popolazione per lo più urbanizzata. Questo dato unito alle particolari condizioni geografiche garantite dalla posizione della regione fra due grandi fiumi fa ritenere che la Mesopotamia fosse una delle aree più malariche dell’antichità.

A riprova di ciò sono state trovate 800 tavolette di argilla con caratteri cuneiformi databili 2.000 a.C. che recano notizie di febbri mortali intermittenti.

In più gli archeologi hanno rinvenuto presso la città di Susa, oggetti votivi contro le zanzare, fra questi un sigillo cilindrico col simbolo di una mosca, simbolo che rappresenta il Nergal, il dio babilonese della malattia e della morte.

Così come nel caso delle zanzariere egiziane si potrebbe quindi dedurre che i medici babilonesi abbiano sopravanzato di migliaia di anni i nostri scienziati nell’intuire che la malattia era trasmessa non tanto dalla mala-aria quanto da insetti volanti.

Per quel che concerne l’Europa, di sicuro, il rigido clima glaciale del Pleistocene non vi favorì certo la diffusione della malaria, basti pensare che la fauna e la flora che si potevano allora trovare nell’Europa del Sud corrispondono a quelle che oggi vivono nei paesi più nordici del nostro continente.

Il clima permetteva allora che nelle regioni più meridionali e solo nella stagione estiva potessero svilupparsi il Plasmodium malariae e il Plasmodium vivax mentre rendeva impossibile la vita del Plasmodium falciparum. Inoltre se la fauna dell’Europa meridionale era quella dell’attuale Europa settentrionale e logico pensare che anche le Anopheles allora presenti corrispondessero a quelle che oggi si trovano nel nord del nostro continente e che mancassero quindi le specie più pericolose per la trasmissione della malaria che rimanevano confinate nel Nord Africa e in Asia.

Per diffondersi in Europa la malaria dovette quindi aspettare almeno fino a 10.000 anni fa quando, con la fine del Pleistocene iniziarono a ritirarsi i ghiacci e a mitigarsi il clima.

Rispetto però a quanto era avveniva nel Nord Africa e nel Vicino Oriente in Europa si dovette probabilmente aspettare ancora fino al quarto millennio a.C. perchè, con l’arrivo di popolazioni dall’Asia Minore e dal Mediterraneo orientale, iniziasse a diffondersi l’agricoltura.

L’agricoltura portò anche in Europa condizioni di vita più sedentarie e un aumento della popolazione, condizioni che garantirono la definitiva diffusione della malaria in Europa.


4. L’iperostosi porotica.

Una volta chiarito dove e quando vanno cercate le tracce lasciate dalla talassemia nel corso della storia dell’uomo, cioè in luoghi e in tempi colpiti dalla malaria, va ora spiegato quale è il mezzo più importante e più adatto per identificare la presenza della talassemia fin dalle epoche più remote.

Tale mezzo consiste nel cercare tracce di iperostosi porotica negli scheletri umani ritrovati in antichi luoghi di sepoltura, ricostruendo perciò, a seconda della presenza o meno di tale difetto osseo, tipico della talassemia, un primo e più antico quadro della diffusione della talassemia nel mondo.

Attraverso un esame visivo e radiologico dei resti umani arrivati a noi dai tempi più remoti, è infatti possibile scoprire, su alcuni scheletri di bambini così come di adulti, mutamenti ossei molto somiglianti a quelli che oggi sappiamo essere causati dalla talassemia.

Tali mutamenti, che nel talassemico provocano la comparsa della tipica facies talassemica, sono stati chiamati dagli antropologi porotic hyperostosis, o in italiano iperostosi porotica.

Queste mutazioni ossee che nella talassemia vengono provocate da una iperattività del midollo osseo, sono caratterizzate da zone porotiche accompagnate a zone di esuberanza ossea disposte in modo bilaterale e simmetrico sulla volta cranica.

Le lesioni possono riguardare in primo luogo le ossa parietali e frontali del cranio ma possono colpire anche le ossa temporali, l’occipitale, lo sfenoide e anche le ossa lunghe degli arti e del tronco.

Le zone ossee colpite da questa alterazione presentano una superficie rugosa, forata da cavità sottili e si presentano a volte ricoperti da una leggera schiuma ossea.

La prima volta che questa mutazione ossea venne descritta fu nel 1885 ad opera di Herman Welker il quale analizzò crani di origine peruviana, giavanese, etrusca, e africana.

Welker ne attribuì la causa ad un’anomalia ereditaria dovuta all’eccessivo sviluppo dei vasi sanguigni e la chiamò cripta orbitalia, si era ancora quindi lontani da ipotizzare che la causa potesse essere la talassemia ma non poteva essere altrimenti pensando che dovevano passare ancora quaranta anni prima che Cooley facesse la prima diagnosi di tale malattia.

Nel 1913 J. Saint-Pèrier spiegò le lesioni scheletriche scoperte nello scheletro di un bambino, rinvenuto in una necropoli gallo-romana del VI secolo vicino a Parigi, attribuendone la causa alla sifilide. Diagnosi che è risultata in seguito essere assolutamente sbagliata.

Nel 1914 Ales Hrdlicka studiò la porosità cranica degli Indiani precolombiani del Perù concludendo che, quella da lui definita osteoporosis symmetrica, trattavasi di una lesione tipica dell’infanzia ad esito spesso fatale. Ci si stava dunque avvicinando alla verità, queste lesioni erano infatti presenti solo negli scheletri dei bambini e non in quelli adulti, questo poiché una malattia infantile ereditaria come la talassemia, se non trattata, porta a morte in giovane età.

Nel 1929 Herbert U. Williams studiando scheletri di bambini dell’Utah e dell’Arizona, si avvicinò ulteriormente a capire la relazione che intercorreva fra l’iperostosi e la talassemia. Williams ritenne infatti che la causa delle lesioni allo scheletro era da attribuirsi a una iperplasia funzionale del midollo osseo che poteva essere messa in relazione con le lesioni ossee descritte in quegli anni in bambini anemici.

Sempre nel 1929 S. Moore condusse studi sugli antichi Maia intuendo anch’egli la presenza di similitudini fra le lesioni da lui trovate e quelle descritte in soggetti colpiti da un’anemia ereditaria.

Nel 1930 A. E. Hooton conducendo ricerche nella regione messicana dello Yucatan rimase colpito dalla frequenza di questo male nelle popolazioni locali.

Nello stesso anno Lèon Pales, analizzando frammenti ossei infantili risalenti al Neolitico dedusse che le mutazioni da cui erano stati colpiti non erano causate da sifilide come precedentemente era stato diagnosticato ma da osteoporosi.

Prima di capire che la causa dell’iperostosi porotica potesse essere la talassemia furono dunque prese in considerazione una gran quantità di ipotetiche cause, alcune delle quali ancora oggi plausibili altre del tutto fantasiose.

Fra le cause che furono in passato prese in considerazione ricordiamo il rachitismo, la sifilide, le deformazioni artificiali del cranio provocate esercitando delle pressioni sulle ossa dei neonati a fini estetici o rituali, le deformazioni provocate dall’abitudine al trasporto dell’acqua in anfore poste sopra la testa, le carenze di origine nutritiva.

Grazie alle attuali conoscenze si possono oggi escludere la sifilide e le alterazioni meccaniche fra le cause delle alterazioni ossee. Sappiamo però che la talassemia non può essere considerata la causa unica di queste deformazioni.

A provocare l’iperostosi porotica potrebbe infatti essere stata una carenza alimentare, in primo luogo la carenza di vitamina D e di oligoelementi quali il ferro. In particolare la carenza di vitamina D nell’infanzia è causa di rachitismo, malattia che, alterando la struttura ossea, può provocare danni allo scheletro simili a quelli causati dalla talassemia. Anche un abuso nel consumo del mais, come avveniva in alcune popolazioni del passato può portare a mutazioni simili. La stessa cosa può valere nel caso di favismo, malattia provocata da una alimentazione prevalentemente a base di fave.

Anche la malnutrizione della madre o un parto prematuro sono fattori che possono favorire alterazioni ossee.

Altre anemie ereditarie, se pur alquanto rare, possono ugualmente provocare alterazioni ossee simili a quelle causate dalla talassemia. Fra queste vanno ricordate la sferocitosi, l’ellissocitosi, la drepanocitosi e la emoglobinopatia C.

In considerazione del fatto che l’iperostosi porotica non può essere attribuibile solo alla talassemia ma che può essere provocata anche da altri fattori non è sufficiente limitarsi a una analisi radiologica dei reperti ossei trovati ma, per poter affermare con certezza che si tratta di talassemia occorre prendere in considerazione anche altri elementi.

Si deve cioè cercare di ricostruire quale poteva essere il livello socio economico della civiltà a cui apparteneva il ritrovamento, si deve analizzare quale potesse essere l’alimentazione, quali i riti e le abitudini, quali le assenze e le presenze di determinate malattie da parassiti, prima fra tutte naturalmente la malaria.

La frequenza di determinate lesioni sugli scheletri di una stessa necropoli è un altro elemento di diagnosi, anche se può, contemporaneamente trarre in inganno: la presenza di lesioni simili, ascrivibili tutte allo stesso tipo di patologia, potrebbe indicare anche una malattia ad andamento epidemico che ha colpito la popolazione infantile in un dato momento. Sopra ad una certa frequenza negli scheletri lesionati non è più possibile, infatti, pensare ad una malattia ereditaria. Al contrario è anche vero che malattia sporadiche non possono lasciare tracce al di là di una certa percentuale. Nel caso si tratti di talassemia la frequenza fra forme gravi di l’iperostosi porotica e forme più lievi deve corrispondere alla frequenza che usualmente si registra tra le forme di talassemia omozigote ed eterozigote.

In ogni caso non essendo l’iperostosi porotica una lesione tipicamente attribuibile alla sola talassemia non è possibile avere la certezza che tale mutazione ossea sia stata causata propio dalla malattia qui in esame. Questo specie nel caso in cui il reperto osseo sia appartenuto a culture a noi ancora poco note, quali ad esempio quelle che popolavano l’America precolombiana.

Ancora una volta però la scienza sembra andare in aiuto dei paleontologi, infatti, nel 1985, un gruppo di ricercatori italiani composto da Ascenzi, Brunori, Citro, Zito sono riusciti a trovare, attraverso un metodo immunologico, la presenza di emoglobina in ossa umane risalenti anche a 4.500 anni fa. Quando il metodo sarà messo a punto fornirà una prova inconfutabile per dimostrare la presenza o meno della talassemia nel soggetto a cui le ossa sono appartenute.


5. Le ricerche di J. L. Angel.

John Lawrence Angel, l’antropologo inglese, nato a Londra nel 1915, fu probabilmente il ricercatore che fece più studi sull’iperostosi porotica. Le sue ricerche, iniziate nel 1937 durante gli scavi archeologici all’Agorà di Atene, lo hanno portato ad analizzare più di 2.300 reperti ossei appartenenti a un’epoca che spazia dal paleolitico all’età moderna e portati alla luce nella zona del Mediterraneo orientale.

Già prima di Angel era stato ipotizzato che l’iperostosi porotica potesse essere stata causata dalla talassemia.

I primi furono Williams (1929) e Vogt (1930), i quali suggerirono l’ipotesi che le mutazioni ossee trovate nelle popolazioni dell’America pre-colombiana potessero essere state causate dal morbo di Cooley, come allora veniva chiamata la talassemia.

In seguito Chini e Valeri (1949) e Neel (1951) cercarono a loro volta di dimostrare che la talassemia era la causa dell’iperostosi porotica.

Fu però Angel, grazie al gran numero di casi da lui descritti a dimostrare una volta per tutte che la talassemia doveva essere la causa dell’iperostosi porotica.

Angel prima ricordò come l’iperattività del midollo osseo causata dall’ipertrofia dei globuli rossi causa dei mutamenti nello sviluppo delle ossa, fatto che pone naturalmente la talassemia fra le possibili cause dell’iperostosi porotica. In seguito ritenne di poter affermare che nei casi in cui si analizzino reperti appartenuti a bambini o infanti che recano gravi alterazioni ossee ci si trovi di fronti a soggetti omozigoti, mentre al contrario qualora il reperto fosse appartenuto a un soggetto adulto e fosse più lievemente colpito dall’iperostosi porotica si deve ricercarne la causa nella forma eterozigote della talassemia.

Quale verifica alla sua teoria fece poi uno studio comparato atto a dimostrare che la presenza dell’iperostosi è sempre accompagnata nello stesso luogo e nello stesso periodo dalla presenza della malaria.

Prima di passare a descrivere i dati raccolti da Angel bisogna ricordare che l’antropologo inglese ebbe anche il merito di dare il nome definitivo alle mutazioni ossee da lui studiate. Dal 1914 veniva infatti usata la definizione coniata da Hrdlicka di osteoporosis symmetrica e fu solo nel 1966 che tale denominazione fu cambiata, appunto da Angel, in Porotic hiperostosis.

Ecco qui di seguito la sua descrizione dell’iperostosi come apparve in uno scritto del 1966.

In ten skulls which have medium to pronunced porotic hyperostosis, the parietal boss area averages 12 mm in thickness; this is about 4 o 5 mm thicker than the normal bone. Since the inner and outer layers of compact bone make up only about one-quarter of the thikness of the skull vault, the diploic thickening must reflect a red cell production by the hyperostotic bone almost double that of normal diploe.

…Porotic hyperostosis of the skulls of young cand older infants often extend to sphenoid and zigomatic bones and sometimes affects the long bones.


Poche righe più avanti, dopo aver ricordato le precedenti definizioni, Angel dichiara di ritenere la sua maggiormente descrittiva: “The name porotic hyperostosis seems to me sligthly more descriptive than theirs”.

Si è precedentemente detto che Angel esaminò più di 2.300 reperti ossei, per la precisione essi furono 2.334 e vennero studiati tra il 1937 e il 1977. Le ricerche di Angel, che si concentrarono nel Mediterraneo orientale, furono condotte in varie necropoli in Turchia, in Grecia, in Marocco, a Cipro.

Il sito più antico che venne studiato da Angel si trova a Taforalt in Marocco è appartiene ad un periodo compreso tra la fine del Paleolitico e il Mesolitico, cioè risale a circa 11.000 anni a.C..

Presso questo sito Angel individuò un’alta mortalità infantile a cui però fece riscontro un solo caso di iperostosi porotica per giunta in una forma molto lieve. Considerando che il periodo a cui appartenne il reperto non dovrebbe aver conosciuto ancora una vasta distribuzione della malaria, la quale come si è detto dovette aspettare il più caldo neolitico per diffondersi lungo le coste del Mediterraneo, considerando anche l’unico caso trovato, che sui 42 reperti indagati costituisce una frequenza del 2%, ritengo che non si può davvero affermare che si trattasse di talassemia o tutt’al più Angel potrebbe aver avuto la fortuna di imbattersi in un caso isolato di mutazione talassemica che date le svantaggiose condizioni ambientali è stato presto eliminato dalla selezione naturale.

Per studiare il periodo neolitico Angel si spostò in Turchia presso Catal Huyuk, un vasto insediamento neolitico sito ad un’altitudine di 900 metri e perciò relativamente poco colpito dalla malaria che in quell’epoca si era diffusa lungo le coste del Mediterraneo.

Dalla Turchia si trasferì in Macedonia a Nea Nikomedeia, zona che trovandosi nella fascia costiera era molto acquitrinosa e quindi particolarmente colpita dalla malaria. Un terzo studio venne fatto a Cipro a Khirokitia, villaggio situato in una valle asciutta sulle colline della parte del centro-Sud dell’isola.

I dati di questi tre rilevamenti sono molto diversi tra loro, mantenendo però la comune caratteristica di presentare percentuali di iperostosi molto più alte di quelle rilevate nel periodo precedente. In Turchia i reperti appartenenti ad adulti colpiti dalla mutazione ossea sono circa il 50% contro il 60% in Macedonia e il 9% a Cipro. Questi dati, qualora fossero realmente tutti riconducibili a casi di talassemia, mostrerebbero quindi quale grande diffusione avesse la talassemia in quel lontano periodo, periodo che fu contraddistinto dall’arrivo della malaria sulle coste del Mediterraneo. Tale periodo può, perciò, essere probabilmente considerato come epoca di origine della talassemia. La grande discordanza nelle percentuali riguardanti i tre studi portati ad esempio, è una prova che l’iperostosi porotica è realmente legata alla talassemia. Infatti le percentuali sono più alte quando si tratta di zone paludose quindi più soggette alla malaria e perciò più favorevoli alla diffusione della talassemia, mentre la frequenza dell’iperostosi porotica si abbassa in siti meno colpiti dalla malaria in quando posti in luoghi più asciutti ed elevati.

Prima di proseguire nell’analisi delle ricerche condotte da Angel nelle epoche sucessive, conviene ora soffermarsi a ricostruire le vicende della diffusione della malaria nella penisola greca.

La Grecia fu probabilmente una delle prime regioni del mediterraneo a rimanere colpita dalla malaria. Basti pensare che una descrizione di questa malattia ci è stata lasciata da Omero, il quale nell’Iliade, nel capitolo XXII, paragona l’eroico Achille, vendicatore della morte di Patroclo, a “Sirio, il portatore delle febbri, la stella malvagia […] che domina il cielo notturno nei mesi della mietitura”.

Nella storia dell’antica Grecia è poi scritto che Solone, vissuto tra il VII e il VI secolo a.C., ordinò ai suoi cittadini di costruire grandi opere di bonifica nelle campagne circondanti Atene al fine di ridurre il pericolo malarico.

Sembra in ogni caso che la malaria giunse in Grecia già durante il Mesolitico e, studi di paleontologia condotti da J. L. Angel, mostrano come la malattia fosse ormai grandemente diffusa in varie zone della Grecia durante i primi secoli del Neolitico.

La diffusione della malaria conobbe durante il neolitico fasi alterne, probabilmente causate da mutazioni climatiche. L’introduzione dell’agricoltura, che in Grecia avvenne nel corso del VIII secolo a.C., contribuì sicuramente a diffondere ancor più la malattia. Bisogna tuttavia dire che prima dell’epoca classica la malaria non sembra che fosse considerata un serio pericolo, questo dato è deducibile dal fatto che le maggiori città dell’antichità si trovavano in zone a rischio di malaria e che le fonti scritte dell’epoca non sembrano dare grande importanza alla malattia al contrario di quanto faranno in seguito.

Secondo Jones, la malaria fu introdotta in Grecia durante l’epoca classica e non prima di allora e da quel momento fu il fattore che provocò il declino della civiltà ellenica. Queste considerazioni sono fin troppo estreme. L’ipotesi più probabile è che la malaria, presente come si è detto durante la preistoria, fu reintrodotta, dopo un periodo di assenza, durante l’epoca classica a partire dal V secolo a.C.. Ancor più criticabile è la tesi secondo cui la malaria fu la causa del declino della civilta ellenistica, probabilmente fu esattamente il contrario e cioè, fu la crisi di quella società che portando all’abbandono delle campagne provocò una recrudescenza della malaria. Questa poi innescò un meccanismo a catena che sicuramente contribuì allo spopolamento e all’impoverimento dell’agricoltura.

Nell’antica Grecia le febbri malariche venivano descritte con il termine pyretos, fra gli autori che ne fecero uso nelle proprie opere vanno ricordati Aristofane, Aristotele, Platone, Sofocle e Ippocrate il quale, grazie alla precisione delle sue descrizioni, ci toglie ogni dubbio che si trattasse di malaria. Ippocrate descrive la malaria nel libro chiamato Epidemie e le febbri da lui descritte possono essere facilmente identificate come terzana e quartana, causate dal Plasmodium vivax e dal Plasmodium falciparum. La seconda specie si diffuse probabilmente più tardi rispetto alla prima in quanto dovette aspettare un adeguato sviluppo nella taglia della specie umana.

Coi secoli la malaria si diffuse sempre più fra la popolazione della Grecia, raggiungendo forse il suo culmine all’inizio dell’era Cristiana. Di certo quando le legioni romane invasero la Grecia non incontrarono la resistenza che questo fiero popolo aveva offerto alle invasioni persiane. In seguito, durante l’epoca bizantina la situazione migliorò almeno fino a quando, con la dominazione turca, la Grecia non conobbe un nuovo periodo di massima diffusione della malaria, periodo che si protrasse fino all’età contemporanea.

Se dunque nel Neolitico l’iperostosi porotica aveva raggiunto frequenze assai elevate, coll’avvento dell’età del bronzo queste frequenze iniziarono a diminuire.

Per studiare questa età Angel fece delle ricerche a Kephala un antico villaggio situato su di un promontorio roccioso dell’isola greca di Kea dove solo il 7% degli adulti presentava forme lievi e dove il 10% dei soggetti più giovani recava forme più gravi.

Angel studiò poi i reperti ossei rinvenuti presso Karatas, una zona fertile vicino ad un lago e attraversata da vari corsi d’acqua che forse a causa di una maggior presenza della malaria presenta percentuali lievemente superiori al sito precedente; a Karatas sono infatti colpiti da ipertrofia porotica il 10 % degli adulti mentre non ne sono state rinvenute tracce presso i soggetti più giovani.

A Corinto la malaria era certamente molto diffusa ed infatti analizzando i reperti ossei rinvenuti in questo sito e appartenenti sempre all’età del bronzo e per la precisione al 2.500 a.C., Angel trovò che ben il 36% degli adulti era colpito da una forma lieve di iperostosi porotica e fra i soggetti più giovani, di cui furono esaminati però solo 7 casi, il 29% porta segni di una forma grave e la stessa percentuale reca tracce di una forma più lieve.

Angel fece poi degli studi presso Lerna un villaggio del 1.800 a.C. in Argolide. In questo luogo le percentuali sono più basse rispetto a Corinto, abbiamo infatti il 15% di forme lievi di iperostosi e il 7% di forme più gravi rinvenute per lo più presso soggetti giovani.

L’ultimo sito appartenente all’età del bronzo a essere stato studiato da Angel fu Bamboula, nella zona Sud-orientale di Cipro. I reperti, risalenti al 1.400 a.C., mostrano come l’incidenza dell’iperostosi porotica sia ulteriormente diminuita. Fra gli adulti solo il 6% reca lievi tracce di alterazioni ossee mentre fra i giovani la percentuale sale notevolmente essendo infatti gravi mutazioni presenti nel 31% dei soggetti esaminati.

Questi dati, basati su un periodo che va dal 3.000 a.C. degli scavi di Kephala al 1.400 a.C. degli scavi di Bamboula, mostrano come tale periodo sia caratterizzato da una forte diminuzione della presenza della talassemia rispetto all’età neolitica precedentemente presa in considerazione. Questa diminuzione è certamente stata provocata da un miglioramento delle tecniche agrarie e delle condizioni di vita delle popolazioni che hanno permesso di ridurre il pericolo della malaria rendendo il vantaggio determinato dalla condizione eterozigote della talassemia un fattore meno importante.

Nell’età del ferro la presenza della talassemia è ancora in diminuzione ed infatti nel 650 a.C. solo il 6% della popolazione presenta tracce di iperostosi porotica.

Durante il periodo classico, grazie all’alto sviluppo raggiunto dalla civiltà greca viene raggiunto il minimo storico nella presenza della talassemia, tracce di iperostosi porotica sono infatti state trovate in solo il 5% degli scheletri appartenenti a questo periodo.

Dopo questo periodo la tendenza si invertì e probabilmente a causa della recrudescenza della malaria le percentuali di soggetti talassemici tornarono a crescere.

Nel periodo ellenistico i soggetti portatori di talassemia eterozigoti erano già saliti al 10%, durante il periodo romano essi raggiunsero il 24%, nel periodo bizantino essi erano il 12%, sotto l’occupazione turca tornarono a salire raggiungendo il picco del 45% e nel secolo scorso secondo Angel furono il 37%.

In definitiva gli studi condotti da Angel nei paesi del mediterraneo ci permettono di concludere che probabilmente la mutazione genetica originaria della talassemia avvenne tra il Mesolitico e il Neolitico, ciò in base al fatto che i primi dati di un certo rilievo risalgono agli scavi condotti in Turchia a Catal Huyuk, villaggio che risale al 6.500 a.C.. Da questo periodo in poi la talassemia rimase sempre presente lungo le coste del Mediterraneo variando in percentuale a secondo dell’incidenza del fattore malarico nei vari periodi della storia.


6. La malaria in Italia

L’ipotesi più affermata è che in Italia la malaria fu introdotta tra il VII e il VI secolo a.C. da popolazioni marinaresche dell’Asia Minore.

Fu propio in questo periodo che popolazioni quali i Fenici e i Lidi, approfittando di progressi nautici quali l’uso della vela a sussidio della propulsione a remi, l’adozione dell’ancora e l’aumento della stazza delle navi, iniziarono a intrattenere frequenti rapporti commerciali con le popolazioni italiche.

E’ perciò probabile che queste popolazione asiatiche che erano già da millenni colpite dalla malaria potessero in quel periodo aver portato la malattia sulle coste italiane. A confermare questa ipotesi vi è il fatto che proprio in coincidenza dell’instaurarsi di tali rapporti commerciali iniziò la decadenza di molte popolazioni italiche senza che venissero coinvolte in guerre o in cataclismi.

Prima a decadere fu la civiltà nuragica in Sardegna, seguita dalla importante città siciliana di Selinunte, da Poseidonia in Campania, da Adria e Spina alle foci del Po.

Anche per spiegare i motivi della crisi della civiltà etrusca è stato sostenuto da alcuni storici che questa possa essere stata causata proprio dalla malaria.

Riflettendo su questi dati sembra di poter sostenere che la storia dell’Italia, soprattutto meridionale sia stata la storia della malaria.

In ogni caso la malaria non fu, all’inizio della storia di Roma, un fenomeno particolarmente grave ed era probabilmente limitata a poche zone. Cicerone afferma infatti che Roma venne edificata sopra un colle “fontibus abundantem et in pestilenti regione salubrem” e in effetti nell’antichità Roma non fu mai colpita dalla malaria grazie anche alle opere di drenaggio di cui furono prodighi costruttori i romani e agli imponenti acquedotti da questi costruiti.

Una importante presenza malarica in Italia avrebbe altresì impoverito il patrimonio umano della Penisola e reso pericoloso un suo attraversamento. Le Guerre Puniche sembrano essere state fatte apposta per dimostrare che tali condizioni non sussistevano.

In quell’occasione infatti gli eserciti cartaginesi e le legioni romane apparivano alimentate da inesauribili riserve umane e non sembravano aver incontrato grossi problemi nel combattersi e inseguirsi per tutta l’Italia.

Alcune delle regioni che fin dal V secolo a.C. risultano essere infestate dalla malaria sono sicuramente l’Agro Romano e il territorio Pontino.

Al contrario una regione che non ha mai conosciuto la malaria è stata la Valle dell’Arno e fu questa la ragione per cui in questa zona nacquero moltissimi nuclei abitativi. La salubrità di questa valle sembrerebbe in contrasto con il suo regime idrico contraddistinto dalle frequenti inondazioni dell’Arno, in quei tempi non arginato, la spiegazione può essere allora cercata nel fatto che in quella zona non era presente la zanzara Anopheles, l’indispensabile vettore della malaria.

Col passare dei secoli la malaria sembra aumentare di importanza e se le prime descrizioni di febbri intermittenti risalgono al periodo della Repubblica, in seguito si vanno facendo sempre più diffuse fra gli autori latini; fra questi ricordiamo Orazio, Marziale, Tacito e altri.

Durante l’Impero il problema della malaria divenne probabilmente sempre più sentito, tant’è vero che sul colle Palatino venne eretto un tempio dedicato alla dea Febris Magna e anche nei trattati di architettura si incominciarono a tenere ben presenti i problemi causati dalla malattia.

Risale al 37 a.C. un significativo trattato di architettura scritto da Marco Terenzio Varro in cui è ben spiegata la necessità di costruire insediamenti umani in posizioni elevate.

Di questo trattato riporto qui di seguito alcuni passi:


Precauzioni devono essere prese nelle vicinanze di paludi… perchè esse producono talune creature (animalia quaedam minuta) che non possono essere viste dagli occhi e che passano dall’aria nel corpo attraverso la bocca e le narici e causano gravi malattie.

“Cosa posso fare – chiede Fundanius – per prevenire le malattie se eredito una casa colonica di quel tipo?” “Ciò che posso rispondere – disse Agrius – è vendi quella villa al prezzo più alto, o se non puoi abbandonala”. Scrofa allora replicò: “Guarda che la villa non sia nella direzione da cui soffiano i venti infetti e che non sia costruita in una conca ma piuttosto in posizione elevata, perchè un luogo ben ventilato è più facilmente pulibile se qualche cosa di dannoso è portato dentro. In ogni caso deve essere esposta al Sole perchè le bestiole muoiono velocemente senza umidità”.


A leggere queste righe si rimane certamente colpiti dal fatto che Varro sembra avere intuito la natura microbica della infezione malarica.

Con l’inizio dell’era Cristiana abbiamo nuove descrizioni di febbri malariche, quali quelle forniteci nel I secolo d.C. da Cornelio Celsio nel trattato De Medicina.

In ogni caso in questo periodo vi fu una decisa diminuzione della diffusione della malaria, certamente arginata dalle opere di bonifica e dall’alto grado di civiltà raggiunto dall’Impero Romano.

Purtroppo le invasioni barbariche provocarono una recrudescenza del fenomeno malarico. Ciò fu dovuto alla drastica diminuzione della popolazione che portò all’abbandono dei campi coltivati che tornarono a essere presto l’habitat ideale per la proliferazione della zanzara Anopheles.

Gli stessi invasori barbarici dovettero ben presto fare le spese con il danno da loro stessi arrecato. Alarico, re dei Visigoti, poco tempo dopo aver conquistato Roma nel 410 morì a causa delle febbri malariche.

Pochi anni dopo, nel 455, Roma cadde nuovamente in mano a popolazioni barbariche, questa volta si trattava dei Vandali di Genserico i quali furono però costretti ad abbandonare l’Urbe probabilmente perchè afflitti dalla malaria.

Nel 536 iniziò per l’Italia un ventennio terribile, caratterizzato dalla guerra greco-gotica che provocò carestie, epidemie, abbandono delle campagne, crisi demografiche e sicuramente un forte inasprirsi del fenomeno malarico. Durante il lungo periodo del medioevo le notizie sulla malaria vanno diventando sempre più sporadiche e imprecise tanto che le poche descrizioni delle varie febbri che colpirono l’Italia in quel periodo non aiutano a capire con sicurezza se si trattasse di malaria. Certamente la malaria dovette rimanere ben presente nella nostra penisola per tutti questi secoli bui visto che nella seconda metà del primo millennio si ha notizia di alcuni Papi e di alti clerici morti a causa della malattia.

La storia ci viene in aiuto nel mostrarci i terribili danni che le febbri malariche continuavano ad arrecare nel nostro paese.

Nel 964 le armate dell’imperatore Ottone I furono decimate dalla malaria, la quale colpì anche due suoi figli provocandone in un caso il decesso.

Nel 1022 fu il turno delle armate di Enrico II, fra le quali la malaria fece molte vittime.

Anche uno degli episodi più leggendari della storia d’Italia, la Battaglia di Legnano, combattuta nel 1176 fra la Lega Lombarda e l’imperatore Federico I potrebbe essere stato influenzato dalle conseguenze della malaria che decimò e abbattè nel morale le truppe del Barbarossa.

Se dunque la malaria colpì spesso le truppe straniere che attraversavano la nostra penisola quasi a fare le veci di quegli italici difensori che ormai quasi più non esistevano, negli anni a venire la malaria si rese colpevole anche della morte dei nostri grandi poeti: nel 1321 Dante Alighieri morì a Ravenna di malaria e la stessa sorte toccò nel 1374 a Francesco Petrarca.

Il XV secolo portò una rinascita in tutti i campi, la popolazione riprese a crescere, le condizioni di vita migliorarono, vi furono miglioramenti nell’agricoltura e i terreni lasciati per secoli in abbandono furono bonificati e coltivati, tutto ciò portò ad una decisa diminuzione della malaria che comunque non scomparì mai, basti ricordare che nel 1590 il Papa Sisto V morì di febbri malariche e la stessa sorte tocco solo un mese più tardi al suo successore Urbano VII.

Tragicamente funestato dalla malaria fu il Conclave del 1623 durante il quale morirono a causa della malattia 8 Cardinali e 30 loro segretari.

Prima di chiudere questo paragrafo sulle vicende della diffusione della malaria in Italia diamo uno sguardo su quanto avvenne in Sardegna.

Non è ben chiaro quando la malattia fece la sua comparsa sull’isola, sembra tuttavia che durante la fioritura della civiltà nuragica in epoca neolitica la malaria fosse assente o comunque non fosse considerata un grave problema. Ciò è deducibile dalla dislocazione dei circa 6.000 nuraghi giunti fino a noi. Essi sono infatti per lo più costruiti lungo il litorale e presso i guadi dei fiumi, luoghi che in caso di malaria sarebbero stati particolarmente pericolosi.

Questi luoghi vennero infatti abbandonati circa nel VII secolo a.C., quando il crollo della civiltà nuragica porto le genti sarde a rifugiarsi sulle alture, probabilmente non tanto per sfuggire a nemici invasori, quanto piuttosto per trovare rifugio dalla malaria che iniziò in quel periodo a diffondersi lungo le zone costiere.

E’ probabile che, data la coincidenza fra l’instaurarsi di rapporti commerciali con le popolazioni fenice e l’arrivo massiccio della malaria sull’isola, siano stati proprio i navigatori fenici a portare l’infezione in Sardegna.

La presenza della malaria nell’isola era ben presente ai dominatori romani, esiste infatti uno scritto del geografo Strabo che nel 334 a.C. definisce la Sardegna insula morbosa.

Lo stesso Cicerone, il quale dovette patire la morte di suo fratello Quinto in Sardegna, parla della reputazione pestilenziale dell’isola.

La reputazione negativa dell’isola dovette certamente amplificarsi nel tempo, tanto è vero che sotto l’impero di Nerone, la Sardegna fu trasformata in luogo d’esilio, esilio che data la presenza tanto diffusa della malattia equivaleva quasi sempre ad una pena capitale.

Dal VI secolo d.C. in poi la Sardegna divenne terra di conquista e di occupazione. Sull’isola si susseguirono Bizantini, Saraceni, Spagnoli, contribuendo tutti al declino demografico e agricolo della Sardegna che divenne ancor più terra malarica.


7. Le origini della talassemia: l’ipotesi greca

Quando nel lontano 1932 i due studiosi americani Whipple Bradford ribattezzarono l’anemia di Cooley con il termine, da allora di uso comune, talassemia, era già chiaro agli studiosi come questa malattia fosse largamente diffusa lungo le coste del Mar Mediterraneo.

Ricerche condotte sulla popolazione mostrarono come la Grecia presentasse le più alte percentuali di soggetti talassemici nella popolazione, questi dati uniti alle ricerche paleopatologiche condotte da Angel in quel paese fecero nascere in molti studiosi, fra i quali vanno ricordati gli italiani Silvestroni e Bianco, l’idea che la mutazione originaria della talassemia possa essere avvenuta propio in Grecia e da qui essersi diffusa in tutte le altre regioni oggi colpite dalla malattia.

Oltre alle ricerche di Angel esistono poi ulteriori prove della presenza del gene talassemico nell’antica Grecia, prove che sono di origine letteraria e artistica.

Ad esempio in alcune parti del Corpus Hippocraticum in cui pare di scorgere, come vedremo nel capitolo sucessivo, descrizioni di pazienti talassemici, esistono inoltre, alcune statuette di epoca ellenistica, conservate al Museo del Louvre che sembrano raffigurare bambini talassemici. Ecco come ne parla Grmek: “abbiamo avuto la piacevole sorpresa di trovare parecchie teste di bambini con fisionomia mongoloide, recanti alcune stigmati della talassemia. Sette statuette di questo tipo provengono da Smirne, una è stata trovata a Troia. Queste teste col viso gonfio e l’arcata zigomatica ipertrofica, con protuberanze simmetriche sulle parti frontoparietali del cranio e la base del naso sfondata, somigliano in maniera davvero straordinaria a quelle dei bambini talassemici omozigoti della Grecia e della Turchia attuali”.

Tutti questi dati stavano a dimostrare che la talassemia era presente in Grecia fin dall’antichità. Rimaneva quindi da spiegare come e quando questa malattia era arrivata in tutti quei luoghi della terra in cui oggi è presente. Fra questi luoghi ricordiamo qui sommariamente: la zona mediterranea, dove è presente in Italia, Sicilia, Sardegna, Corsica, Malta, Cipro, Turchia, Israele, Egitto, Tunisia, isole Baleari, Dalmazia, Macedonia, oltre che in Grecia; fuori dal Mediterraneo, sposandosi verso Est è presente in Arabia e fin lungo le coste del Mar Caspio, toccando paesi come l’Iraq, l’Iran la Georgia e l’Azerbaidjan; proseguendo verso oriente la talassemia è presente in Pakistan e in India, nel Bengala e nello Sri Lanka, proseguendo nel nostro viaggio verso oriente la possiamo trovare anche in Birmania, Cambogia, Vietnam, Laos, Thailandia e Indonesia.

Per spiegare come e quando la talassemia sia arrivata nel nostro paese i sostenitori dell’idea che questa fosse di origine greca, partirono dall’osservare in quali zone dell’Italia la talassemia è più frequente.

La talassemia non è infatti distribuita in modo uniforme in tutto il territorio del nostro paese, essa è infatti presente con maggior frequenza in ben determinate aree.

Dai dati raccolti in tante indagini sul territorio fra le quali vanno sempre ricordate quelle fatte da Silvestroni e Bianco, risulta che la talassemia è presente soprattutto in Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia e nella zona del Delta del Po nelle province di Rovigo, Ferrara, Ravenna.

Qui di seguito riporto una tabella sulla frequenza della talassemia risalente al dopo guerra, prima che l’emigrazione verso i grandi centri industriali del Nord Italia facesse aumentare la percentuale in città quali Torino e Milano.


Torino


0,93%


Milano


1,39%


Genova


1,55%


Padova


2,03%


Rovigo


9,73%


Ferrara


7,39%


Ferrara e Prov.


12,70%


Bologna


0,87%


Ravenna


3,70%


Firenze


0,47%


Ancona


1,65%


Roma


1,64%


Napoli


1,75%


Torre Annunz.


2,77%


Napoli e Prov.


2,03%


Lecce


6,25%


Lecce e Prov.


5,32%


Reggio C. e Prov.


3,50%


Messina


2,86%


Catania


3,64%


Catania e Prov.


4,10%


Siracusa


4,25%


Siracusa e Prov.


5,04%


Caltanissetta


2,79%


Caltanissetta e Prov.


3,90%


Agrigento


7,61%


Agrigento e Prov.


6,29%


Palermo


4,42%


Palermo e Prov.


4,27%



Mediante ricerche genealogiche sulla popolazione è stato poi notato che le persone colpite dalla talassemia residenti in zone al di fuori di quelle a più alta frequenza talassemica sono per la gran parte di origine meridionale o insulare. La talassemia appare quindi ancor più circoscritta a ben determinate zone.

Andando poi ad analizzare più da vicino le regioni a più alta percentuale di talassemici si nota che le zone più colpite sono quelle della fascia costiere e quelle immediatamente a ridosso. All’interno invece la frequenza della talassemia è decisamente minore.

Ora noi sappiamo che propio le zone più vicino alla costa erano nel passato anche le zone in cui maggiormente la malaria era perniciosa ed infatti le zone con più alta frequenza talassemica sono sovrapponibili a quelle in cui era presente la malaria, eccetto poche eccezioni quale ad esempio il Lazio, zona malarica ma non talassemica.

Silvestroni e Bianco hanno però cercato qualche altra caratteristica comune che avesse potuto legare storicamente tante zone dell’Italia apparentemente lontane tra loro come ad esempio la Sicilia e il Ferrarese.

Ebbene, in effetti in epoca preromana esistettero realmente forti legami fra queste terre, essendo state tutte parte della Magna Grecia, cioè di quell’insieme di fiorenti colonie greche che si svilupparono in Italia fra l’VIII e il VI secolo a.C..

Queste colonie sorte lungo le coste dell’Italia meridionale e lungo le coste della Sicilia, grazie agli stretti legami con la madre patria, ebbero naturalmente modo di importare dalla Grecia la talassemia che, grazie alla presenza della malaria, trovò nelle nuove colonie un ambiente favorevole alla sua diffusione.

All’ipotesi avanzata da Silvestroni e Bianco, circa cioè una introduzione della talassemia in Italia da parte di coloni provenienti dalla Grecia, che sarebbe avvenuta a partire dal loro arrivo sulle nostre coste attorno al VIII secolo a.C., si potrebbe opporre il controverso ritrovamento fatto da Graziosi, durante scavi eseguiti nella grotta di S. Teodoro presso Messina di alcuni crani appartenenti al Paleolitico superiore che secondo una successiva analisi condotta sugli stessi da Ignazio Gatto (1948) risulterebbero colpiti da ipertrofia porotica. Questa diagnosi fu però criticata nel 1973 da Antonio Ascenzi secondo il quale data anche l’età del soggetto non poteva trattarsi di iperostosi porotica causata dalla talassemia ma piuttosto si trattava di una conformazione senile.

Inoltre, il fatto che l’epoca a cui appartiene il ritrovamento sia anteriore a quella in cui arrivò la malaria in Sicilia fa ritenere a maggior ragione che non si tratti di un caso di talassemia.

Se dunque la talassemia giunse nella Magna Grecia portata dai Greci la stessa cosa dovrebbe essere successa per la Sardegna, isola che benché non fece parte del sistema di colonie greche in quanto sotto l’influenza fenicia, mantenne comunque, sempre nello stesso periodo, stretti legami con le popolazioni greche.

Intorno al VI secolo a.C. popolazioni greche, dopo aver colonizzato la Corsica, fondarono una base presso l’attuale Olbia.

In quel periodo la Sardegna, come abbiamo visto era probabilmente già infestata dalla malaria, anche se in misura minore di quanto invece lo sarà in seguito. Quindi la talassemia, grazie alla presenza della malaria sull’isola portatavi probabilmente dai Fenici nel secolo precedente, potrebbe essere stata introdotta da quelle antiche genti greche, oppure, ricordando la dominazione bizantina nel medioevo, la talassemia potrebbe essere stata introdotta ugualmente dai greci solo che con un millennio di ritardo rispetto alla Magna Grecia.

Per quel che riguarda il territorio del Delta Padano è noto che in epoca preromana fiorirono due importanti città, Spina e Adria.

Per quanto riguarda Spina si sa che la sua popolazione era costituita da un nucleo etrusco e da un nucleo greco. Il nucleo greco era probabilmente predominante sul primo come dimostrerebbe l’ingente materiale greco ritrovato durante gli scavi archeologici di Spina.

Per quanto concerne i contatti greci con Adria basterebbe ricordare che il mare Adriatico prese tale nome in quanto i greci lo derivarono dalla città di Adria. Se ciò non bastasse ci sono diverse testimonianze della presenza greca ad Adria, Giustino ne farebbe addirittura derivare la fondazione da un nucleo greco, in seguito, nel IV secolo a.C., la città venne conquistata da Siracusa ad opera di Filisto Siracusano durante la fase di espansione di Dionisio il Tiranno.

Appare perciò certa la presenza greca in quello che è oggi il territorio ferrarese, presenza che secondo la teoria di Silvestroni e Bianco spiegherebbe l’esistenza in cosi alte cifre percentuali della talassemia nella zona.

Per dar maggior valore all’ipotesi di una relazione fra antichi insediamenti greci e talassemia Silvestroni e Bianco fecero notare come la maggior presenza di talassemia nella zona del Delta Padano sia stata rilevata nella zona del comune di Codigoro, zona in cui si ritiene che nell’antichità passasse il ramo del Po che poi andava a sfociare nel mare nei pressi di Spina.

Le percentuali di talassemia riscontrate nella zona da Silvestroni e Bianco sono le seguenti:


Codigoro 15,60%


Mezzogoro 14,90%


Caprile 16,78%


Pomposa 18,12%


La zona di Codigoro sarebbe quindi stata, durante il periodo spinetico, in contatto con le popolazioni greche che colonizzarono Spina e mischiandosi con queste, ne avrebbero ereditato la talassemia.

A testimoniare la presenza della talassemia a Spina vi è stato anche il ritrovamento di reperti ossei, appartenuti appunto all’antica civiltà spinetica, fra i quali Enrico Benassi e Antonio Toti hanno trovato tracce di iperostosi porotica .

Dunque la talassemia potrebbe essere stata portata nella regione del Delta Padano da questi primi coloni greci. Li avrebbe poi potuto facilmente diffondersi grazie alla presenza della malaria.

La presenza della malaria in quei tempi sembra infatti probabile, tanto è vero che è stato ipotizzato che essa possa essere stata all’origine della decadenza di Adria e di Spina.

Durante l’Impero Romano, come é stato dimostrato da uno studio condotto da Cesare Menini , la zona del Delta Padano fu totalmente risanata, infatti non esistono fonti, appartenenti all’epoca romana, che facciano pensare che vi fosse presente la malaria. Al contrario lo storico Strabone nel I secolo d.C. parla a lungo della salubrità delle zone paludose nella fascia tra Ravenna e Aquileia e d’accordo con Vitruvio spiega tale salubrità con gli accorgimenti idraulici disposti dagli abitanti di quella zona che permettevano alle acque del mare e delle paludi di scambiarsi di continuo. A testimoniare che in epoca romana non fosse presente la malaria vi è anche la notizia che propio a motivo della grande salubrità della zona nei pressi di Ravenna era stata istituita una scuola per gladiatori.

Con la fine degli splendori dell’Impero romano e l’arrivo del medioevo a Ferrara giunse anche la malaria.

Le prime notizie della presenza della malattia sul territorio ferrarese risalgono al XIV e si riferiscono ai territori dell’Abbazia di Pomposa i cui monaci a partire da questo secolo videro ridurre la propria attività a causa degli insetti e delle febbri.

A testimoniare la presenza della malaria in questo periodo giunge anche la già ricordata morte di Dante Alighieri ucciso a Ravenna dalle febbri malariche.

Ad ogni modo la situazione non doveva essere ancora assai grave visto che le attività dell’Abbazia continuò fino alla fine del ‘400 e che nel XV e nel XVI secolo gli Estensi, signori di Ferrara, costruirono nella zona alcuni castelli, più come luoghi di delizia che per la difesa del territorio.

In ogni caso gli annalisti ferraresi non riportano alcuna notizia che possa fare pensare alla presenza di febbri provocate dalla malaria.

Questo potrebbe essere dipeso dal fatto che la malaria non era ancora molto diffusa oppure dal fatto che le cronache non si occupano mai dei fatti dei piccoli centri dispersi fra le lagune.

Per avere dati precisi sulla presenza della malaria nel ferrarese si dovette attendere fino al secolo scorso quando nel 1838 in un’opera di G. Barzellotti intitolata “Avvisi agli stranieri che amano viaggiare in Italia” descrisse Ferrara come una città insalubre a causa di malattie epidemiche e di febbri periodiche; ancora più insalubre viene descritta Comacchio in cui in estate vi erano epidemie di febbri perniciose.

Altre notizie sulla malaria ci vengono lasciate da Luigi Bosi, medico ferrarese, Docente universitario e Primario all’Arcispedale S.Anna. Bosi negli ” Elementi di patologia umana” scritti nel 1845 ricorda come un tempo nel ferrarese regnassero le febbri malariche e osserva che nel tempo in cui scrive tali febbri si sono fatte meno frequenti e meno gravi.

La situazione sembra quindi andare migliorando. Infatti nel triennio 1877-1879, dai rilevamenti fatti presso le caserme di tutta Italia la guarnigione di Ferrara si piazza solo al 53° posto con una incidenza dei malati di malaria pari al 157,28 per mille contro una media nazionale del 127,14 per mille. Chioggia invece con una morbilità del 836 per mille è al terzo posto dopo Cosenza e Agrigento.

Anche nella “carta della malaria” del Torelli le linee ferroviarie Ferrara-Bologna e Rovigo-Chioggia sono indicate come zone in cui la malaria è grave ma non gravissima.

Agli inizi del ‘900, grazie al chinino la situazione migliora ulteriormente fino a quando nell’ultimo dopoguerra il D.D.T. ha definitivamente eradicato la malaria dal ferrarese.

Ferrara non fu però solo una zona ad alto rischio di malaria ma a vedere le statistiche è una delle province italiane con la più alta percentuale di talassemici.

La talassemia è infatti presente presso la popolazione ferrarese con una percentuale media del 10% con punte del 15% che occasionalmente raggiungono, come nel caso di Pomposa, il 22%.

Le zone che hanno la più alta percentuale di talassemia sono quelle lungo la costa al di là delle grandi zone paludose; queste stesse zone sono anche quelle che hanno presentato nel passato la più alta percentuale di incidenza malarica, con punte che arrivavano al 60% di popolazione colpita.

Appare quindi chiaro lo stretto rapporto che vi è fra queste due malattie.

Tale rapporto è iniziato molto indietro negli anni: basti pensare che presso Spina, la cui fine, si è ipotizzato, potrebbe essere stata causata dalla malaria, sono stati trovati resti scheletrici che presentano delle alterazioni ossee tipiche dei malati di talassemia e che quindi potrebbero provare la presenza della talassemia nel ferrarese fin da quegli antichi tempi. Bisogna però dire che recenti studi genetici sembrano avere dimostrato il fatto che i mutamenti genetici che hanno provocato la talassemia sembrano essere avvenuti per quanto riguarda il ferrarese non più di 70-80 generazioni fa.

Di sicuro la talassemia era presente a Ferrara il secolo scorso, il Bosi infatti nell’osservare l’idrocefalo nei bambini, a differenza dei suoi colleghi che lo credono causato dalla malaria, ci dice che “qui da noi non è rarissimo questo morbo: lo vedemmo nei neonati, lo vedemmo congenito o ereditario; lo vedemmo a gradi diversi… Ma tranne i casi di idrocefalo congenito od ereditario, negli altri non colpì che bambini per difetto ed anomalia della progressiva evoluzione organica… E’ anche un morbo che sulle prime si fa addirittura manifesto, e presto, sebbene a grado a grado, raggiunge l’ultimo suo termine.

Data la rarità dell’idrocefalo è lecito ritenere che le anomalie craniche tanto frequentemente osservate dal Bosi fossero dovute alla talassemia che, se non curata, provoca la caratteristica facies mongoloide.

Bosi aveva quindi visto giusto quando aveva detto che quell’alterazione ossea non era dovuta alla malaria ma avrebbe dovuto aspettare altri 50 anni per capire che la causa del male era la talassemia; non lo fece lui ma lo fecero fra gli altri alcuni suoi colleghi ferraresi, un nome su tutti Ferdinando Rietti.

In ogni caso le prime notizie su un ritorno della malaria nel ferrarese ricompaiono solo nel XIV secolo d.C., ciò significa che per circa 1.300 anni la malaria non dovette quindi essere presente nel territorio ferrarese.

In tal periodo, venendo meno i vantaggi offerti dalla talassemia in presenza della malaria, la frequenza della presenza della malattia nella popolazione conobbe di certo una forte diminuzione. Considerando però che, dopo la scomparsa della malaria, ci vogliono circa cento generazioni affinché il difetto genetico della talassemia possa scomparire dalla popolazione, si può ritenere che la talassemia non scomparse mai dal territorio ferrarese.

Indagini genetiche hanno però dimostrato che la mutazione tipica della talassemia presente nel ferrarese non dovrebbe essere più vecchia di 70-80 generazioni. Si potrebbe a questo punto pensare che, mantenendo la teoria di una origine greca, una nuova ondata di talassemia sia arrivata in questa zona durante il medioevo, magari durante la dominazione bizantina o in seguito ai legami commerciali fra la Serenissima e le popolazioni greche e turche, teoria che è stata sostenuta anche da Valerio Chini.

Da quanto visto fino ad ora, per quanto riguarda l’Italia, risulta quindi possibile applicare la teoria di Silvestroni e Bianco che vuole la talassemia originaria della Grecia e da qui diffusasi in tutti gli altri paesi.

La talassemia non è però, come è stato visto, circoscritta all’Italia o comunque al bacino mediterraneo, ma è diffusa anche in vaste zone dell’Asia.

Analizzando queste zone dell’Asia si può osservare che spesso la talassemia è presente, come nel Mediterraneo, in zone costiere o comunque non lontane dal mare. Questo fatto è facilmente spiegabile ricordando che lungo le coste era più facile trovare la malaria un quindi un terreno favorevole alla diffusione della talassemia.

Secondo Silvestroni e Bianco ed anche altri autori, questo dato è anche significativo del fatto che il contagio di queste zone costiere dell’Asia deve essere avvenuto ad opera di popolazioni mediterranee, le quali fin dalle epoche più remote hanno avuto una forte propensione alla navigazione.

La talassemia non è però presente solo nelle zone costiere, perciò, per giustificare la sua presenza anche nell’entroterra i due ricercatori hanno ipotizzato che in queste zone la talassemia possa essere stata portata dall’esercito di Alessandro il Grande. Questa idea nasce dal fatto che l’estensione dell’Impero del grande Macedone ricalca le zone in cui è presente la talassemia.

Quando, dopo la morte di Alessandro il Grande il suo Impero si sfaldò rimasero comunque contatti tra le civiltà asiatiche e quelle mediterranee, basti ricordare che esistono documenti scritti cinesi che parlano di ambascerie dell’Impero romano nel 166 e nel 266 d.C., questi contatti avrebbero permesso un ulteriore scambio genetico fra popolazioni asiatiche ed europee, contribuendo a diffondere la talassemia nel continente asiatico.


8. Le origini della talassemia: la vallata sommersa

Esiste una seconda teoria che ritiene di potere indicare il Mediterraneo come la zona di origine della talassemia. Anche questa teoria, apparsa nel 1964 ad opera di Zaino, parte dall’osservazione che le zone di maggior frequenza della talassemia si trovano lungo le sponde del Mar Mediterraneo, principalmente in Grecia e Italia.

Gli sviluppi di Zaino sono però ben diversi da quelli di Silvestroni e Bianco, Zaino ritiene infatti che la talassemia possa essere nata in una vallata oggi sommersa che si trovava nel cuore del Mediterraneo a Sud dell’Italia e della Grecia. Questa teoria, che rievoca le immagini della leggendaria città perduta di Atlantide è sicuramente molto suggestiva ma forse fin troppo fantasiosa e meno concreta di quella di Silvestroni e Bianco.

Zaino, come si è detto parte dall’osservazione che la talassemia è presente in varie zone del Mediterraneo, dopo di che ricorda che la più antica testimonianza archeologica di un caso di iperostosi porotica è quella fatta da Gatto sui resti ossei scoperti da Graziosi nella grotta messinese di San Teodoro. Sebbene la diagnosi di talassemia sia quanto meno incerta Zaino usa questo dato come cardine della sua teoria, infatti questo primo caso di talassemia apparterrebbe alla prima grande civiltà paleolitica che si sviluppò in Europa circa 35.000 – 40.000 anni fa.

Questa civiltà è molto simile, a giudicare dai reperti archeologici, alle civiltà che contemporaneamente si svilupparono nel Nord Africa in paesi quali il Marocco, la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto; in Asia in paesi quali la Palestina, la Mesopotamia, la Turchia, l’India. Tutti questi luoghi, già dal lontano Paleolitico, secondo Zaino, oltre ad essere accomunati dalla stessa civiltà avrebbero avuto in comune anche il diffondersi della talassemia.

La talassemia però, sempre secondo Zaino, sarebbe nata migliaia di anni prima rispetto a questa civiltà paleolitica, in una vallata che sorgeva nel centro del Mar Mediterraneo.

Durante il Pleistocene, un periodo che durò 2.000.000 di anni e si concluse 10.000 anni fa, si alternarono quattro epoche glaciali: Gunz, Mindel, Riss, Wurm. Durante queste glaciazione gran parte dell’acqua veniva assorbita dai ghiacci, provocando di conseguenza un abbassamento del livello dei mari.

In quel periodo il Mediterraneo era considerabile come un grande lago completamente circondato dalla terra così da rimanere isolato dall’oceano Atlantico.

Il Mediterraneo era inoltre attraversato da due lingue di terra che collegavano l’Europa all’Africa in corrispondenza di Gibilterra e della Sicilia.

Secondo Zaino queste terre, ed in particolare una valle affiorante dal mare a Sud della Grecia e dell’Italia, erano popolate dall’uomo già 70.000 – 60.000 anni fa ed erano infestate dalla malaria, fattore che permise la diffusione, circa 50.000 anni fa, della talassemia fra queste popolazioni.

In seguito dopo la fine dell’epoca glaciale il clima, facendosi più caldo, permise un innalzamento del livello delle acque, le quali sommersero le terre più basse dando al Mediterraneo l’aspetto che ha oggi.

In seguito a questi mutamenti geografici, le popolazioni che abitavano queste zone oggi sommerse furono costrette a migrare verso terre più alte e quindi al sicuro dall’espansione delle acque. In queste modo, queste popolazioni oltre alla comune civiltà, che come si è detto appare simile in Europa, Africa ed Asia, diffusero la talassemia in tutti i luoghi della terra in cui oggi è presente.

A differenza di quanto hanno fatto Silvestroni e Bianco, Zaino prende in considerazione anche il continente americano.

Ricordando infatti i tanti casi di iperostosi porotica identificati presso le civiltà dell’America precolombiana, Zaino spiega la presenza della talassemia in questo continente, che secondo lui potrebbe anche essere stata la causa della scomparsa del regno dei Maya, dicendo che questa sarebbe arrivata in America, attraverso lo stretto di Bering, circa 20.000 anni fa, portata dalle popolazioni asiatiche, alle quali a loro volta era giunta dalla sommersa vallata mediterranea.

A mio avviso esistono due punti deboli in tutta questa teoria, il primo riguarda il fatto che non esistono prove della presenza della talassemia nel Paleolitico, visto che l’unica descrizione di iperostosi porotica risalente a questo periodo è quella della grotta di San Teodoro che fra l’altro è stata molto contestata e che rimane in ogni caso un episodio isolato, insufficiente a dimostrare la presenza della talassemia in tempi così remoti.

Il secondo punto debole della teoria di Zaino è che essa fa nascere la talassemia 50.000 anni fa nel pieno di un periodo glaciale che, se permise il formarsi della vallata nel bel mezzo del Mar Mediterraneo di certo non avrebbe permesso la diffusione della malaria, la quale infatti dovette aspettare i più caldi tempi del Neolitico prima di diventare un problema per le civiltà mediterranee. In mancanza della malaria noi non conosciamo alcuna ragione per cui la talassemia avrebbe potuto diffondersi nel Mediterraneo così come in America.

Per quanto concerne l’arrivo della malaria in America esistono due opposte teorie.

La prima teoria è sostenuta da un gruppo di ricercatori composto da Carter, Netolitzky, Scott, Boyd, Jarcho e altri che in una serie di lavori compresi tra il 1931 e il 1964, hanno ritenuto di poter spiegare la presenza della malaria in America come importata nel continente dai conquistatori spagnoli dopo la scoperta di Colombo.

La malaria, secondo questa teoria, si sarebbe radicata inizialmente a Hispaniola e da questa isola avrebbe iniziato a diffondersi nelle circostanti per raggiungere infine il continente. La diffusione sarebbe stata resa possibile dalla presenza di zanzare Anopheles indigene.

La seconda teoria e appoggiata da un gruppo di ricercatori formato da Flores, Penna e Barbieri, Arcos, Paz-Soldan, Jaramillo-Arango, Hoeppli, Guerra ed altri autori che in lavori pubblicati fra il 1886 e il 1964 sostennero che la presenza della malaria nel Nuovo Continente era di gran lunga anteriore al 1492.

A confermare questa teoria ci sarebbe il fatto che i medici del popolo Incas sembra che conoscessero già la presenza delle febbri malariche.

Non va neanche scordato che furono probabilmente i disagi provocati dalla malaria a decretare la sfortuna dei primi tentativi di colonizzazione spagnola.

Se dunque la malaria è realmente arrivata in America prima di Cristoforo Colombo bisogna allora chiedersi come e quando ciò poté avvenire.

E’ ormai accertato che tribù asiatiche attraversarono lo stretto di Bering dirette in America già nel tardo Pleistocene, circa 40.000 anni fa, approfittando del periodo glaciale per attraversare a piedi quello stretto, reso asciutto dall’enorme massa d’acqua imprigionata dalla calotta di ghiaccio.

La malaria avrebbe dunque potuto raggiungere l’America in quell’occasione ma ciò è da ritenersi piuttosto difficile in quanto, come sostiene Cockburn in un lavoro del 1967 è poco credibile che il vettore della malaria potesse sopravvivere a quelle fredde latitudini in un periodo storico caratterizzato dall’ultima glaciazione.

Inoltre abbiamo visto nel paragrafo precedente che la grande diffusione della malaria avvenne solo a partire dal Neolitico.

La malaria deve perciò essere giunta in America dopo tale periodo.

Bisogna anche tenere conto del fatto che la malaria è facilitata a diffondersi da un’economia agricola e da una società sedentaria, fattori che si svilupparono in America solo a partire dal 5.000 a.C. epoca in cui in America si instaurò un clima più caldo dell’odierno che durò fino al 2.000 a.C. e che fu chiamato Altitermale, clima che indubbiamente avrebbe potuto facilitare la diffusione della malattia.

La malaria potrebbe essere ad esempio giunta durante l’Età del Bronzo, periodo in cui è noto che vi furono viaggi di genti attraverso l’oceano Atlantico dalle coste del Mediterraneo Occidentale a quelle dell’America.

In seguito, attorno al 900 d.C. vi furono, secondo Jeffreys, frequenti contatti tra le popolazioni americane sia con mercanti arabi che con trafficanti di schiavi.

Le popolazioni americane non ebbero contatti con altri popoli solo attraverso l’oceano Atlantico ma similitudini culturali con popolazioni polinesiane dimostrano che anche l’oceano Pacifico servì a mantenere rapporti con altri popoli dai quali potrebbero avere ereditato in qualsiasi momento anche la malaria.

Per cercare di trarre profitto da entrambe le teorie fin qui viste, l’ipotesi più probabile è che il Plasmodium vivax e il Plasmodium malariae fossero presenti in alcune aree del Centro e del Sud America prima di Colombo, mentre il Plasmodium falciparum fu importato dagli spagnoli e dai loro schiavi neri. E’ in ogni caso da escludersi, a confutazione di quanto aveva ipotizzato Zaino, che la malaria fosse giunta in America già 20.000 anni fà.

Rimaniamo quindi dell’idea, anche in base ai dati raccolti da Angel, che la talassemia si diffuse solo a partire dal Neolitico o al più dal Mesolitico. Inoòtre l’idea di Zaino circa l’origine della talassemia dalla vallata in mezzo al mare ritengo debba essere negata anche in virtù del fatto che tale vallata nel neolitico, in seguito allo scioglimento dei ghiacci era già sommersa.


9. Le origini della talassemia: l’ipotesi mongola

Esiste una terza teoria circa le origini e le modalità di diffusione della talassemia. questa teoria si differenzia totalmente dalle due analizzate fino ad ora in quanto, invece di partire dall’analisi dell’attuale distribuzione della talassemia, parte dall’osservazione che i malati di talassemia nella forma omozigotica presentano una fisionomia mongolica. Da questa osservazione, il pediatra greco Caminopetros per primo, ha ipotizzato che la talassemia potesse avere origini asiatiche.

Effettivamente le alterazioni della struttura ossea del cranio provocano una deformazione dell’aspetto del volto in senso “orientaleggiante”.

Col tempo si escluse però che queste deformazioni della testa potessero essere attribuite all’appartenenza alla razza mongolica, ma si capì che esse erano causate dagli sviluppi della malattia.

Solo i talassemici non adeguatamente curati presentano infatti oggi questo aspetto; quando invece la malattia viene sottoposta ad adeguato trattamento, i tratti del volto sono quelli tipici della razza e della famiglia a cui il soggetto appartiene, così come lo sono sempre nei soggetti eterozigoti.

Davanti a questi dati di fatto da lui stesso ammessi, Caminopetros non si arrese, continuando a difendere la sua teoria sostenendo questa volta che i bambini talassemici avrebbero altri attributi razziali asiatici, quali l’occhio di tipo mongolico e una macchia blu nella regione sacrale. Attributi che, comunque, fino ad oggi nessuno studio ha confermato essere statisticamente associabili alla talassemia. Non risultano infatti studi che documentino la presenza di questo particolare taglio di occhi nel talassemico, mentre le macchie blu nella regione sacrale sono reperto frequentissimo nei primi mesi di vita propio nei bambini di razza bianca mentre, sebbene chiamate macchie mongoliche, non hanno nulla a che vedere con l’appartenenza a questa razza asiatica.

I presupposti da cui parte questa teoria appaiono perciò decisamente sbagliati e anche gli sviluppi con cui viene spiegata la diffusione della talassemia dall’Asia al Mediterraneo sono piuttosto carenti.

Secondo questa teoria la talassemia si sarebbe perciò sviluppata in Mongolia e da qui diffusa in tutta l’Asia circa cinque secoli prima di Cristo.

In Europa la talassemia sarebbe giunta nel V secolo d.C. portata dagli Unni di Attila, in seguito quando questo popolo si mise al servizio mercenario dell’impero di Bisanzio, gli Unni furono dispersi in tutti le guarnigioni del Mediterraneo contribuendo quindi a diffondere ulteriormente la malattia.

A riprova di questa teoria i suoi sostenitori portano il fatto che la l’odierna distribuzione della talassemia ricalca la carta della massima espansione dell’impero bizantino.

Per smontare tutta questa teoria non rimane che aggiungere che se la talassemia fosse arrivata nel Mediterraneo solo nel V secolo d.C. non si potrebbero spiegare tutte le prove archeologiche, artistiche e letterarie che testimoniano la presenza della talassemia nella zona del Mediterraneo a partire dal Neolitico. A tutti gli studi di Angel per il Mediterraneo orientale aggiungiamo ora la scoperta fatta da Gino Fornaciari e Francesco Malegni che presso Tarquinia, in territorio etrusco, hanno trovato inequivocabili segni di iperostosi porotica su due scheletri del III secolo a.C..

In oltre questa teoria, su un’origine asiatica della talassemia, ritiene che la mutazione originaria sia avvenuta in Mongolia, luogo da cui non risulta invece essere pervenuta alcuna segnalazione di casi di talassemia e che si trova nella zona dell’Asia più lievemente colpita da questa malattia. In base a questi dati è dunque difficile poter pensare che propio la Mongolia possa essere stata il luogo da cui la talassemia si diffuse nel Mondo.

Esiste in effetti un’altra teoria che vorrebbe identificare nell’Asia il luogo di origine della talassemia. Romer e Dorken, partendo da osservazioni da essi condotte su persiani ricoverati nella clinica medica di Amburgo, hanno ipotizzato infatti che la talassemia possa essere originaria del continente asiatico e che sia stata trasmessa alle genti europee grazie alle nozze di Susa, durante le quali diecimila soldati di Alessandro Magno sposarono altrettante donne persiane.

Questa teoria è sicuramente molto suggestiva ma decisamente debole ed indifendibile alla semplice obiezione, fatta anche all’ipotesi di Caminopetros, che nel bacino mediterraneo sono state riscontrate tracce di talassemia ben anteriori all’epoca alessandrina.

Caminopetrus non è stato l’unico a basare la propia teoria della nascita della talassemia dall’analisi della fisionomia dei malati di tale malattia.

Ignazio Gatto, al pari di Caminopetrus, partì dall’analisi delle caratteristiche ossee del viso dei malati di talassemia unendo però tale analisi all’osservazione dell’attuale distribuzione della malattia e alle tracce che essa ha lasciato nei secoli più remoti.

Secondo Gatto, Caminopetrus commette l’errore di scambiare quelle che sono alterazioni scheletriche proprie della malattia per caratteristiche tipiche di una razza umana. Gatto sembra dunque aver superato l’errore commesso da Caminopetrus, ma lo supera solo per poi caderci in seguito, quando sostiene che ” La discussione può essere spostata e certamente con maggiore esattezza alla discussione di alcuni caratteri antropologici della faccia che si rinvengono nei familiari degli individui affetti da morbo di Cooley.

…da Ortolani è stato segnalato il fatto che nei genitori si rileva un particolare aspetto della faccia, in cui è evidente la sporgenza degli zigomi”.

Dunque secondo Gatto l’aspetto che talora può avere il viso di portatori di talassemia è indice di appartenenza ad una ben preciso tipico etnico.

Tale tipo etnico viene individuato da Gatto in una razza da lui definita paleosicula, caratterizzata da ” piccola statura con vari sintomi di scarso affinamento fra cui risaltano i pomelli alquanto pronunziati e che può considerarsi come un relitto di elementi arcaici insulari, preesistenti alla comparsa della razza mediterranea…di questo tipo paleosiculo a me pare che si possano ancora oggi individuare degli elementi in alcune zone del centro della Sicilia”.

La talassemia sarebbe dunque, secondo Gatto, una caratteristica propia di questa antica razza siciliana, caratteristica che, al pari della sporgenza degli zigomi, sarebbe stata trasmessa fino ai nostri giorni.

Osservando poi la vasta estensione territoriale che ha oggi la talassemia, Gatto ritiene di poter escludere che possa essere dovuta a migrazioni di popolazioni avvenute in tempi relativamenti recenti. La talassemia doveva essere presente in un’epoca arcaica, precedente le prime grandi migrazioni che avrebbero popolato tutte le zone della Terra dove oggi si trova la talassemia.

Ciò, a suo modo di vedere, darebbe credito alla teoria di una razza paleosicula portatrice della tara genetica che, in tempi remoti, si sarebbe mischiata ad una più vasta razza mediterranea. Razza che attraverso le sucessive migrazioni avrebbe diffuso la talassemia in tutto il mondo. Gatto vorrebbe dunque rivendicare per la sua terra, la Sicila, il primato dell’origine della talassemia.


10. Le origini della talassemia: l’ipotesi multicentrica

Tutte le tre teorie fino ad ora prese in considerazione partivano dall’idea di voler spiegare la diffusione della talassemia nel mondo dando per scontato che questa dovesse aver avuto origine in un solo luogo della Terra e da qui essersi diffusa in tutti gli altri luoghi dove oggi è presente.

Grazie alle ricerche sul DNA compiute negli ultimi anni, è stato ora messo in luce come la talassemia non dipenda da un’unica mutazione, ma esistano molte varietà di mutazioni a carico del gene beta tutte aventi come espressioni clinica una sindrome talassemica.

In base a questa scoperta si può quindi pensare che la talassemia non abbia avuto un’unica origine, ma che la sua diffusione in così tante parti del Mondo sia dovuta non tanto o comunque non solo a flussi migratori, ma quanto a più mutazioni avvenute indipendentemente in varie parti del nostro pianeta.

Questa ipotesi è avvalorata dalla recente scoperta di un nuovo caso di mutazione a cui si è assistito direttamente.

Nel 1973, infatti , Tonz e i suoi collaboratori osservarono in una ragazza svizzera tutte le caratteristiche tipiche di una portatrice eterozigote di talassemia, confermate anche dall’esame del DNA, mentre i suoi genitori biologici, la sorella e il fratello sono del tutto normali.

Ciò dimostra che il nostro DNA non è statico ma è in continua evoluzione. Questa caratteristica, permettendoci di adattarci al meglio alle diverse situazioni ambientali, ha quindi favorito, in luoghi malarici, la diffusione della talassemia, originata quindi non da una sola ma da tante differenti mutazione del nostro patrimonio genetico.

In Italia sono state fino ad ora riscontrate più di 10 differenti difetti molecolari causa di talassemia.

Partendo dalla zona del Delta Padano, troviamo che qui il 96% delle talassemie sono beta e il 4% sono alfa, fra le beta talassemia sono presenti due sole varietà: la B+ IVS-I nt 110 e la B° 39. Questa ridotta eterogeneità dei difetti talassemici del Delta Padano è probabilmente da ricercarsi nel grande isolamento in cui vissero per secoli queste popolazioni.

Ancor più omogenea risulta essere la situazione in Sardegna. In questa regione le talassemie sono divise in egual misura fra alfa e beta. Fra le Beta talassemia, specie nella parte meridionale dell’Isola, la quasi totalità sono del tipo B°39.

Anche questo dato rispecchia un certo isolamento della popolazione sarda che presenta mutazioni che si possono trovare molto frequenti in Africa, nel caso delle alfa talassemie e in Spagna nel caso della talassemia B°39. Ciò dimostra i rapporti che la popolazione isolana ebbe nell’antichità con colonizzatori di origine africana quali fenici e poi cartaginesi e in tempi più moderni con i dominatori spagnoli.

Nel Lazio, dove la talassemia è presente in basse percentuali, vi è una grande eterogeneità nel tipo di difetto genetico. Nella regione sono infatti presenti 8 varietà di beta talassemia fra le quali predomina con il 40% dei casi la B°39; è inoltre presente, con il 10% dei casi l’Alfa talassemia. Questa grande eterogeneità, unita alla bassa frequenza della talassemia fra la popolazione del Lazio, lascia desumere che la malattia sia arrivata in questa regione solo in tempi recenti portatavi da persone emigrate dalle altre regioni d’Italia.

Anche in Puglia la situazione appare molto eterogenea, se infatti circa l’80% delle talassemie sono di tipo beta, queste sono poi divise in quattro distinte varietà: vi è infatti il 36% di B°39, il 17% di B+ IVS-I nt 1, il 17% di B+ IVS-I nt 6 e il 29,5% di B+ IVS-I nt 110. Questi dati mostrano come la regione abbia subito l’influsso genetico di molte popolazioni, da quelle che si affacciano sul Mediterraneo Nord occidentale dove, come vedremo, predomina la varietà B° 39, a quelle di origine greca o comunque del Mediterraneo orientale dove è invece presente in maggioranza la varietà B+ 110. Ecco dunque che anche nelle varietà di talassemia, come in quelle artistiche vi si trova traccia del passaggio di tante genti, dai Greci, ai Bizantini, ai Saraceni, agli Spagnoli.

La regione d’Italia in cui vi è la più grande eterogeneità e varietà nei difetti molecolari è senza dubbio la Sicilia dove la varietà B°39 ha una percentuale del 40,1% fra tutte le beta talassemia; la B+ IVS-I nt 1 ha una frequenza del 5,5; la B+IVS-I nt 1 del 18,8, la B+ IVS-I nt 110 del 18,8; la B+ IVS-I nt 116 del 1,1; la B+ IVS-II nt 745 del 4%; e infine la Frameshift 6 del 2,2%; a queste vanno aggiunte altre varietà che insieme raggiungono il 6,2%. Come si vede la grande eterogeneità genetica di questa isola è perfetta testimone della storia della Sicilia.

In Sicilia si incontrarono e si scontrarono popoli provenienti dai più diversi paesi. La Sicilia grazie infatti alla sua posizione nel centro del Mar Mediterraneo fu per millenni il crocevia di tanti popoli. Nell’Isola si possono trovare le tracce del passaggio e della dominazione di Fenici, Greci, Cartaginesi, Romani, Arabi, Normanni e Spagnoli. Ognuna di queste popolazioni ha lasciato segni della propria civiltà, della propria cultura e del proprio stile in una fusione unica e tipica dell’Isola.

Questa miscellanea di razze non ha però lasciato il proprio segno solo nell’enorme patrimonio artistico e culturale della Sicilia ma anche nel patrimonio genetico dei suoi attuali abitanti, i quali oltre a ereditare caratteristiche fisionomiche hanno purtroppo acquisito una grande varietà di malattie ereditarie.

Al fine di individuare la grande varietà di mutazioni emoglobiniche presenti nella popolazione siciliana il professor Schilirò ha condotto una serie di ricerche che hanno portato, tra il 1975 e il 1990, all’esame di 68.532 soggetti volontari.

I dati che sono emersi da queste ricerche mostrano la presenza sull’isola di 20 differenti tipi di mutazioni emoglobiniche, tutti accomunati dal fatto di essere causati da una mutazione del gene beta. a questa comunanza si discostano solo i rari casi di alfa talassemia che secondo Schilirò sono originari dell’Africa.

Sempre di origine africana dovrebbe essere l’Hb S, nota come drepanocitosi o anemia falciforme, che dalla ricerche di Schilirò risulta avere una presenza in Sicilia del 2,33%, toccando la punta più alta a Butera col 13%. L’Hb S ha una prevalenza nella zona Sud-orientale della Sicilia. Questo fatto ricollega la sua presenza in Sicilia alle colonie greche della Magna Grecia che ivi si insediarono ed esclude che possa invece essere stata portata dai Fenici in quanto questi si insediarono nella zona occidentale dell’Isola, zona che risulta colpita solo lievemente dalla drepanocitosi. Inoltre la Sardegna, antica colonia fenicia, non presenta casi di drepanocitosi.

La drepanocitosi, originaria della zona centro occidentale dell’Africa sarebbe arrivata nel Mediterraneo passando per l’Algeria, la Tunisia e l’Egitto e da qui, secondo Schilirò sarebbe giunta in Sicilia portatavi dai Greci o più tardi dagli Arabi. Considerando poi che l’Hb S è meno omogeneamente diffusa in Sicilia di quanto lo sia invece la talassemia si può pensare che sia dovuto al fatto che la prima essendo arrivata più tardi abbia avuto meno tempo per diffondersi.

Qui di seguito riporto una tabella riassuntiva della distribuzione delle varietà di beta talassemie presenti in Italia.


Delta Padano


64,2% codone 39 C -T


34,2% IVS-I nt 110 G -A


0,6% altre


Sardegna meridionale


95,4% codone 39 C -T


0,4% IVS-I nt 110 G -A


0,4% IVS-II nt 745 C -G


2,2% Frameshift 6 (-A)


1,6% Altre


Lazio


4% -101 C -T


3% -87C -G


40% codone 39 C -T


6% IVS-I nt 1 G -C


13% IVS-I nt 6 T -C


17% IVS-I nt 110 G -A


3% IVS-II nt 1 G – (B°)


8% IVS-II nt 745 C -G


6% altre


Puglia


36,5% codone 39 C -T


17% IVS-I nt 1 G -A


17% IVS-I nt 6 T -C


29,5% IVS-I nt 110 G -A


Sicilia


40,1% codone 39 C -T


5,5% IVS-I nt 1 G -A


18,8% IVS-I nt 6 T -C


22,2% IVS-I nt 110 G -A


1,1% IVS-I nt 116 T -G


4,0% IVS-II nt 745 C -G


2,2% frameshift


6,2% altre



Ampliando ora il nostro sguardo dalla sola Italia a tutto il bacino mediterraneo il dato che emerge più evidentemente è che nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo Nord-occidentale predomina la beta talassemia nella varietà B° 39 nei paesi del Mediterraneo Orientale è invece predominante la varietà B+ 110.

In Spagna la B° 39 ha una frequenza fra tutte le beta talassemie del 64% contro il solo 8,5% della B+ 110, in Francia la B° 39 ha una frequenza del 41% contro il 27,5% della B+ 110, in Italia la B° 39 è presente fra le beta talassemie con una percentuale del 37% contro il 27% della B+ 110. Fino all’Italia dunque la B° 39 ha una prevalenza che man mano che ci si sposta da Est a Ovest è sempre più predominante; dai paesi dell’ex Jugoslavia, andando verso Est il predominio si inverte, nella ex Jugoslavia la B° 39 rappresenta solo il 3,5% del totale delle beta talassemie contro il 39,5% della B+ 110, in Grecia la B° 39 ha una frequenza del 17 % contro il 42,5% della B+ 110, in Turchia la B° 39 ha una frequenza del 4% mentre la B+ 110 è presente con una percentuale del 38,7%.

Il quadro qui di seguito riportato della frequenza delle beta talassemie nei paesi mediterranei mostra immediatamente la grande varietà di mutazioni che sono all’origine delle talassemie.


Italia


1% -87 C -G


1% codone 6 -A


37% codone 39 C -T


10% IVS-I 1 G -C


5% IVS-I 6 T -C


27% IVS-I 110 G -A


7% IVS-II 1 G -A


5% IVS-II 745 C -G


7% altre


Grecia


1,7% -87 C -G


2,9% codone 6 A


16,9% codone 39 C -T


13,2% IVS-I 1 G -A


7,2% IVS-I 6 T -C


42,5% IVS-I 110 G -A


2% IVS-II G -A


6,9% IVS-II 745 C -G


5,7% altre


Spagna


5% codone 6 – A


64% codone 39 C -T


3,6% IVS-I 1 G -A


15,5% IVS-I 6 T -C


8,5% IVS-I 110 G -A


3,4% altre


Francia Sud-orientale


41,9% codone 39 C -T


10,5% IVS-IG -A


8,6% IVS-I 6 T -C


27,5% IVS-I 110 G -A


1 % IVS-II 1 G -A


2,8% IVS-II 745 C -G


9,5% altre


Tunisia


16% codone 6 A


19% codone 39 C -T


1,5% IVS-I G -A


10,5% IVS-I 6 T -C


7,5% IVS-I 110 G -A


7,5% IVS-II 745 c -G


38% altre


Algeria


17,9% codone 6 – A


26% codone 39 C -T


14,5% IVS-I 1 G -A


3,5% IVS-I 6 T -C


25,4% IVS-I 110 G -A


12,7% altre


Turchia


0,6% -87 C -G


3,6% -30 T -A


0,6% -28 A -G


1,2% codone 5 – CT


0,3% codone 6 – A


6,5% codone 8 – AA


0,9% codoni 8-9 + G


3,9% codone 39 C -T


2,4% IVS-I 1 G -A


18,1% IVS-I 6 T -C


38,7% IVS-I 110 G -A


11,9% IVS-II 1 G -A


2,1% IVS-II 745 C -G


9,2% altre


Cipro (popolazione turca)


1,5% codone 39 C -T


11,7% IVS-I 1 G -A


8,7% IVS-I 6 T -C


69,9% IVS-I 110 G -a


5,6% IVS-II 745 C -G


2,6% altre


Bulgaria


3,9% -87 C -G


4,7% codone 5 – CT


4,7% codone 6 – A


5,4% codone 8 – AA


5,4% codoni 8-9 + G


21,9% codone 39 C -T


3,1% IVS-I 1 G -A


10,2% IVS-I 6 T -C


24,2% IVS-I 110 G -A


1,6% IVS-II 1 G -A


10,2% IVS-II 745 C -G


4,7% altre


ex Jugoslavia


1,2% codone 6 – A


3,5% codone 39 C -T


9,3% IVS-I G -A


29,1% IVS-I 6 T -C


39,5% IVS-I 110 G -A


1,2% IVS-II 745 C -G


16,2% altre



Oltre alle due varietà di mutazioni talassemiche di cui sopra detto bisogna ricordare che, come già visto nelle regioni Italiane, anche negli altri paesi del Mediterraneo esistono tante altre varietà di talassemia che rendono ancora più complesso volere cercare di ipotizzare la storia delle loro origini e della loro distribuzione.

L’unica cosa che si può dire è che la talassemia B°39 appare predominante nei paesi latini e quindi si potrebbe ipotizzare che possa essere stata diffusa durante l’Impero Romano. Prova potrebbe esserne il fatto che la regione in cui questa varietà è più diffusa è la Sardegna, isola che durante l’impero di Roma era uno dei posti più colpiti dalla malaria e quindi più adatta alla diffusione della talassemia.

Le talassemie B+ 110 sembrano invece essere maggiormente diffuse in zone del mediterraneo in cui più a lungo si fece sentire la presenza islamica e dell’Impero ottomano. Ciò può far pensare che possa essere stata diffusa, in tempi più recenti rispetto alla precedente varietà, dal movimento di espansione dei popoli islamici che iniziò nel medioevo e che, raggiungendo anche le coste del Mediterraneo Nord-occidentale, spiegherebbe la presenza, pur in percentuali ridotte, della B+ 110 in questi luoghi allo stesso modo per cui l’espansione dell’Impero Romano nel Mediterraneo orientale spiegherebbe le tracce di B° 39 ivi presenti. Per quanto riguarda le altre varietà talassemiche, alcune potrebbero essere di origine africana, come africana sarebbe l’origine della drepanocitosi e di alcune alfa talassemie, altre invece potrebbero essere sorte in Europa, in ogni caso la loro vasta distribuzione e la complessa storia delle popolazioni mediterranee rende difficile, in mancanza di dati più precisi cercare di risalire alle origini di queste mutazioni che potrebbero essere avvenute in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della nostra storia.

Resta comunque sicuro il fatto che le più antiche tracce di talassemia segnalateci dai paleopatologi, attraverso la ricerca dell’iperostosi porotica, risalgono al periodo Neolitico ed è quindi in questa epoca che si deve ritenere sia nata la talassemia attraverso differenti mutazioni del nostro patrimonio genetico, mutazioni che sono state rese vantaggiose dal fatto che proprio nel Neolitico la malaria si andava diffondendo nel bacino mediterraneo.

In mezzo a tante ipotesi c’è, infatti, una certezza: malaria e talassemia sono strettamente in relazione. Questo in quanto la dove la malaria agisce come fattore selettivo il soggetto eterozigote talassemico, data la sua immunità all’infezione malarica, ha più possibilità di avere discendenza rispetto all’individuo sano, malgrado il talassemico debba pagare alla propria malattia un costo in vite umane pari ad un quarto della propria discendenza se i genitori sono entrambi portatori sani.

Dal Neolitico fino ai giorni nostri è più che probabile che la talassemia non scomparve mai, piuttosto la sua incidenza nella popolazione variava in conseguenza dei periodi di recrudescenza o di diminuzione del fenomeno malarico

Per ciò che concerne l’Italia, è stato visto come il primo periodo di grande diffusione della cominciò nel VII-VI secolo a.C., si può suppore che proprio in quei secoli la talassemia conobbe la prima fase di grande diffusione. Durante gli splendori dell’Epoca Romana, quando un miglioramento delle tecniche agricole permise una diminuzione della malaria, la talassemia conobbe probabilmente una fase di diminuzione, legata d’altro canto ad una sua vasta distribuzione in tutto il bacino mediterraneo, conseguenza della maggior facilità agli scambi umani stimolata dall’Impero Romano.

Con l’arrivo del Medioevo giunse anche un nuovo periodo favorevole ad una nuova crescita della talassemia. Dal Medioevo fino ai giorni nostri ci furono indubbiamente varie fasi nella diffusione della malaria, ma oscillazioni di breve periodo non possono influire che in minima parte con la crescita della talassemia, tanto è vero che si è calcolato in cento generazioni il tempo che deve passare dalla scomparsa della malaria in una zona, perchè si possa estinguere il gene talassemico.

In ogni caso, all’epoca dell’Unità d’Italia, grazie all’ancora vasta diffusione della malaria la talassemia trovava ancora un terreno più che favorevole per potersi diffondere.

A testimonianza della diffusione della malaria in quel periodo riporto una riga da Il Piacere di D’Annunzio:

“Tre o quattro uomini febricitanti stavano intorno a un braciere quadrato, taciturni e giallastri.”

Questa fu l’immagine che si offrì agli occhi di Andrea ed Elena quando i due personaggi dannunziani entrarono nell’osteria romanesca appena fuori le mura della capitale.

La giovane coppia non sembra rimanerne in alcun modo stupita e tanto meno dovevano rimanerne stupidi quei viaggiatori che sul finire del secolo scorso attraversavano le campagne d’Italia.

I primi anni seguenti l’unità d’Italia sono caratterizzati da una fase di recrudescenza della malaria. Le cause vanno cercate nell’incontrollato disboscamento e nella costruzione della ferrovia che contribuirono al dissesto del territorio che causò il formarsi di stagni e paludi. Alle cause umane vanno poi ad aggiungersi quelle naturali, tra il 1850 e il 1950 si ha il cosiddetto secolo caldo che portò ad un aumento delle temperature estive, a tutto favore della malaria.

I primi dati sulla diffusione della malaria nell’Italia unita sono del 1887 e per quell’anno ci parlano di 21.000 morti.

Questa cifra ci fa subito capire come la malattia, diffusa in 63 province su 69, fosse compagna di vita di un gran numero di italiani e si trovasse in gran parte della penisola.

Lo Stato unitario si rese subito conto della gravità della situazione e vennero ben presto prese iniziative atte a combattere la malattia, già nel 1870 si diede il via al primo esperimento di bonifica dell’Agro Romano.

Uno degli uomini che in quegli anni si distinsero per il contributo dato alla lotta anti malarica fu il senatore Luigi Torelli. Nominato a far parte della “commissione parlamentare ferroviaria” che aveva il compito di indagare sull’inadeguato rendimento di alcune linee ferroviarie, capì che la causa era da imputare alla presenza della malaria su dette linee e nel giugno del 1880 presentò al Senato un progetto di legge sul “bonificamento delle regioni di malaria lungo le ferrovie d’Italia.

Da questo progetto nacque nel 1882 la prima “Carta della malaria in Italia”. Questa carta fu costruita e stampata dall’Istituto Geografico Militare e pubblicata nel 1882 a Firenze da Pellas (vedi fig.?).

Il lavoro di Torelli ci permette di avere una chiara idea della grande vastità di territorio italiano colpito dalla malaria.

Come si può vedere è difficile indicare in quali regioni fosse radicata la malattia, tutta l’Italia sembra esserne colpita.

Il meridione e le isole sono di certo le zone più colpite ma anche al Nord la malattia è diffusa in varie province. Vi sono notizie di febbri presso Ferrara, Mantova, Crema, Milano, Novara, Vercelli e anche a Sondrio dato che la bassa Valtellina, prima della bonifica del fiume era molto infetta.

Il Celli ci ricorda a proposito che ” i parassiti delle febbri gravi sono molto diffusi non solamente nella pianura del Po, ma eziandio lungo alcuni suoi confluenti nelle valli alpine”.

La grande diffusione della malaria nella Pianura Padana è sicuramente da mettere in relazione con l’espansione delle superfici agricole convertite a risaia. Nel Novarese e nel Biellese nel 1890 vi fu una grande diffusione della coltura del riso che rese necessaria l’apertura di canali di irrigazione, ebbene in quello stesso periodo vi fu una grave e rapida diffusione della malaria.

Propio a causa della malattia molti comuni decisero presto di chiudere le risaie appena aperte.

Nel Modenese la malaria fece la sua apparizione nel 1898, in coincidenza con l’apertura delle risaie.

Al contrario nel Parmense l’abolizione delle risaie portò ad una diminuzione e quasi scomparsa della malaria.

Ad ogni modo, anche se la diffusione della coltura del riso ha portato la malaria a diffondersi in zone ove era sconosciuta, i dati mostrano come la curva della mortalità per malaria fosse in continua diminuzione. Nel 1897 i morti furono 12.000 contro i 21.000 di dieci anni prima, nel 1914 erano ulteriormente scesi a 2.050 per poi risalire a causa della guerra agli 11.500 morti del 1918, cifra ancor più grave se si pensa che dalla somma mancano i dati dei territori italiani in mano agli Austriaci; dopo la guerra la tendenza tornò a decrescere, nel 1919 ci furono 6.800 morti, nel 1920 i morti furono 4.250, nel 1921 ci fu un lieve aumento che portò i decessi a 4.850, l’anno dopo, nel 1922 erano però già scesi a 4.100, nel 1923 furono 3.310 e nel 1924 vi fu l’ultimo aumento prima della guerra che portò i morti a 4.040.

La significativa diminuzione dei morti che si verificò sul finire del secolo fu in massima parte attribuibile alla diffusione del chinino che era ancora “il solo grande e vero specifico contro la malaria, come preservativo non meno che come curativo”.

In conseguenza di ciò il 23 dicembre del 1900 fu emanata una legge che garantiva la vendita di chinino puro a buon prezzo mediante esercizio di stato in ogni parte d’Italia; alla vendita del chinino era preposte le farmacie e i rivenditori di generi delle privative.

A rendere più efficace la precedente legge il 2 novembre 1901 ne venne emanata un’altra che garantiva la distribuzione gratuita del chinino da parte dei medici condotti, come curativo e preventivo, a tutti gli operai e contadini dei luoghi di malaria per conto e a spese dei loro datori di lavoro.

In ausilio al chinino dal 1899 si inizia ad attuare una profilassi meccanica contro la malaria. Tale profilassi prevedeva l’adozione di reti anti zanzara a protezione delle abitazioni site in luoghi a rischio, ma dato l’elevato costo di tale operazione essa non era ancora alla portata delle masse di contadini ma fu per lo più applicata alle caserme e ai vagoni ferroviari.

Questi mezzi furono indubbiamente capaci di ridurre la mortalità della malattia ma non la sua diffusione, a riguardo riporto un passo del Celli scritto nel 1900: ” Oggi però la gravità delle febbri estive per lo più viene prontamente scemata dal chinino; pur tuttavia ad onta del larghissimo uso che da tempo si fa di questo farmaco specifico, la zona della diffusione della malaria non è punto diminuita ne tende a diminuire”.

In attesa che venissero compiute delle opere di bonifica dei territori malarici che potessero finalmente sconfiggere la malattia nel 1915 sopraggiunse la Prima Guerra Mondiale che fece impennare tutti dati sulla diffusione e sulla mortalità della malaria.

Lo scoppiò delle ostilità peggiorò fin dall’inizio la situazione sanitaria italiana, la causa di ciò deve attribuirsi afflusso nella nostra penisola dei resti dell’esercito serbo, sconfitto dagli Austro-Ungarici, ma soprattutto falcidiato da innumerevoli malattie, tifo, colera, dissenteria e naturalmente la malaria.

Ora questa malattia non ci mise molto a propagarsi fra le truppe italiane che parteciparono alle operazioni di salvataggio dei Serbi, così come si propagò anche fra le truppe italiane impegnate in territori esteri malarici quali l’Albania e la Macedonia, finendo col contagiare circa 50.000 soldati ivi impegnati.

Non si deve però credere che la malattia arrivasse in Italia solo di importazione. Durante tutto il conflitto nuovi focolai di malaria si riaccendevano in special modo nei territori delle operazioni militari; in queste regioni le trincee scavate dai soldati e le buche provocate dalle bombe divenivano presto piccole paludi tanto idonee alla vita della zanzara Anopheles. Gli spostamenti delle truppe e ricoveri dei militari malati negli ospedali di tutta Italia finirono poi col propagare l’infezione anche in zone distanti dal fronte bellico.

L’incremento della malaria durante gli anni della guerra è da imputarsi anche ad altri fattori: in quegli anni tanto agitati si finì col trascurare le misure di profilassi sanitaria, in parte perchè le attenzioni e le energie erano catturate dagli eventi bellici e un po’ perchè proprio quegli eventi resero difficile un normale approvvigionamento di chinino da distribuire alla popolazione.

Il farmaco era infatti destinato con priorità alle truppe impegnate in territori malarici e succedeva che le navi che lo importavano venissero silurate.

Un’ultima ragione che può spiegare l’aumento della malattia negli anni della guerra è da ricercarsi nell’abbandono delle opere di bonifica che fu imposto dall’esigenza di concentrare tutte le forze nello sforzo bellico.

Secondo il De Magistris, durante la guerra il numero dei malati e dei morti di malattia cresce in ragione geometrica fra i combattenti col prolungarsi delle operazioni belliche.

Finita la guerra la situazione sembra tornare subito alla normalità e se nel 1918 i morti di malaria furono 11.500 l’anno seguente sono appena 6.800; nel 1920 i morti sono ulteriormente scesi a 4.250. Benché le vittime di malaria fossero in diminuzione sembra non si riesca a tornare sui valori ante guerra, quando nel 1914 i morti furono 2.050, nel 1921 e nel 1924 si registrarono poi due nuovi picchi della mortalità, rispettivamente con 4.850 e 4.040 morti.

Questi dati fecero scattare un nuovo allarme malaria, in special modo da parte del senatore Sanarelli, l’allora direttore dell’Istituto di Igiene della Regia Università di Roma.

Se in precedenza la lotta alla malaria era stata condotta dallo Stato liberale per mezzo del chinino ora lo Stato fascista, con la legge del 24 dicembre del 1928, da il via alla bonifica integrale che ottenne i migliori risultati nel Tavoliere delle Puglie, nel Basso Volturno e nell’Agro Pontino dove furono fondate Littoria, Sabaudia, Pontinia e Aprilia.

La bonifica integrale contribuì grandemente alla ulteriore riduzione della distribuzione della malaria in Italia. Risulta però, a causa di molteplici ragioni, decisamente complicato fare una nuova mappa della distribuzione della malattia nella penisola. La prima difficoltà nasce dal fatto che dopo la fine della I Guerra Mondiale i 200.000 malarici dismessi dagli ospedali, tornando alle loro case riaccesero focolai precedentemente estinti, un’altra ragione è che non è possibile affidarsi ai dati sulla mortalità, in quanto non sempre ci si infetta di malaria nel luogo in cui si vive o in cui si muore, è poi difficile determinare con precisione quando il paziente muoia di malaria in quanto spesso l’infezione indebolendo l’organismo favorisce il subentrare di altre patologie.

Un’altra difficoltà è data dalla grande mobilità del vettore della malattia. la zanzara Anopheles può infatti compiere migrazioni di qualche chilometro attorno alla zona delle paludi senza poi contare che utilizzando l’uomo può compiere spostamenti ancora maggiori, basti pensare alla zanzara annidata in un carro di fieno che viene portata dall’uomo a zonzo di paese in paese e di valle in valle.

Le stesse opere di bonifica sono di ostacolo alla determinazione delle zone malariche in quanto può accadere che i canali utilizzati allo scolo delle acque dalle zone di bonifica possono trasportare la malattia dove prima non c’era. Un’ultima difficoltà è causata dal fatto che i mutamenti di coltura o di tecnologia agricola possono portare, come nel caso delle risaie, la malaria dove prima non vi era o viceversa.

Ad ogni modo il fascismo sembrava avere ormai vinto la lotta alla malattia se nel 1940 non fosse subentrata la Seconda Guerra Mondiale. Anche questo conflitto, anche se in misura minore rispetto al precedente, provocò una recrudescenza della malaria.

Questa volta la medicina aveva a disposizione una nuova, potente arma per combattere e debellare la malaria.

Le truppe alleate, nel giungere in Italia avevano infatti portato con se il D.D.T., l’insetticida inventato nel 1939, o meglio reinventato, visto che fu originariamente creato verso la fine del secolo scorso da un chimico svizzero che cercava un rimedio contro le tarme dei vestiti e che venne poi dimenticato fino appunto al 1939 quando se ne capì il reale valore.

Fu così che nel 1944, gli alleati avviarono un’opera di bonifica completa della Sardegna attraverso un uso massiccio del D.D.T. che venne sparso mediante uso di aerei su tutta l’isola.

Nel 1951 l’operazione di bonifica della Sardegna poté considerarsi conclusa con il raggiungimento di un grande risultato: la malaria era completamente scomparsa dall’isola sebbene il vettore non fosse stato eliminato completamente.

In breve tempo la campagna anti malarica fu estesa a tutta l’Italia e, mediante interventi più mirati rispetto a quanto fatto in Sardegna, furono trattati con il D.D.T. 2.500.000 ettari di terreno e 2.027.455 vani di abitazioni proteggendo circa 3.500.000 persone, consumando 192,8 tonnellate di insetticida.

I risultati ottenuti con questa operazione di bonifica furono determinanti e portarono negli anni ’50 alla scomparsa del Plasmodium falciparum e nel 1970 l’Italia entrò nella lista dei paesi che avevano eradicato la malaria.

Come dimostrano i dati roportati nella tabella (?) propio quando la malattia sembrava completamente debellata dal territorio italiano, a partire dagli anni ’70 i casi di malaria ripresero a crescere.

Questa tendenza è dovuta all’immigrazione di genti provenienti da paesi malarici e dai turisti italiani che fanno ritorno dopo aver visitato tali paesi.

Mentre infatti la malaria in Italia è stata eradicata in altre parti del mondo, a partire dagli anni ’70 la situazione si va aggravando a causa dei meccanismi di resistenza sviluppati dalle Anopheles nei confronti del D.D.T. e dal Plasmodium falciparum verso il chinino.

Oggi il 72% della popolazione mondiale vive in zone a rischio di malaria, fra queste zone vanno ricordate l’India, il Sud-Est Asiatico e la zona a Sud del deserto del Sahara.

Anche in Italia, in considerazione del fatto che la zanzara Anopheles, vettrice dell’infezione, non si è mai estinta, l’arrivo di persone infette potrebbe provocare la riformazione di focolai autoctoni di malaria.

Per quanto concerne il continente asiatico, gli studi di Wasi hanno mostrato che, rispetto alla distribuzione della talassemia, esso può essere diviso in tre parti (vedi fig.?).

La prima parte, comprendente il Giappone, la Cina settentrionale e tutta l’Asia del Nord, risulta praticamente immune dalla talassemia. La seconda parte che comprende la Thailandia, il Laos e l’Indonesia presenta altissime percentuali di talassemia che sono in prevalenza del tipo alfa.

La terza zona va dall’India all’Arabia ed è caratterizzata da una percentuale abbastanza simile fra beta talassemia e alfa talassemia che però è presente in forme intermedie.

In ogni caso non si può pensare che vi siano collegamenti fra le talassemie del bacino mediterraneo e quelle asiatiche. In Asia infatti sono prevalenti le alfa talassemie che invece nel Mediterraneo sono presenti in percentuali molto ridotte. Per ciò che concerne le beta talassemie i difetti molecolari più comuni nel Mediterraneo risultano del tutto assenti in Asia dove sono invece presenti varietà di beta talassemie molto rare o del tutto sconosciute nella zona mediterranea. Questi dati sembrerebbero quindi contraddire le teorie che vorrebbero una relazione fra la talassemia europea e quella asiatica.

Per quanto riguarda il continente americano, non sono stati segnalati fino ad oggi casi di talassemia fra le popolazioni originarie dell’America precolombiana. Tutti i casi di talassemia diagnosticati in America appartengono a soggetti originari dell’Africa dell’Europa o dell’Asia.

Con ciò non si vuole dire che la talassemia fosse una malattia sconosciuta alle antiche popolazioni americane: i tanti reperti ossei riportanti tracce di iperostosi porotica trovati in America fanno al contrario supporre che la talassemia vi fosse particolarmente diffusa e che si sia poi estinta solo in epoca relativamente recente.

La situazione ambientale più favorevole alla diffusione della talassemia in America iniziò nel 5.000 a.C., quando l’avvento di un periodo dal clima particolarmente caldo insieme all’instaurarsi di un’economia agricola permisero alla malaria di diffondersi nel continente. La talassemia potrebbe, da quel momento in poi, avere avuto un’origine autoctona, o esservi stata importata a partire dall’età del bronzo attraverso l’Oceano Atlantico da popolazioni provenienti dal Mediterraneo.

Dopo tante ipotesi, tornando alla realtà del nostro presente, è necessario ricordare che nella sola Italia vivono circa 2 milioni di portatori sani e settemila talassemici omozigoti a cui se ne aggiungono trecento nuovi nati ogni anno.

Indubbiamente negli ultimi 30 anni si sono conseguiti notevoli progressi nella terapia di questi malati, tali progressi possono far ritenere che un bambino talassemico nato negli ultimi anni potrebbe avere un’aspettativa di vita pari a un suo coetaneo sano, oltre alla possibilità di mettere al mondo figli.

Purtroppo se la prevenzione e le terapie mediche sono efficaci nella lotta contro la malattia non servono invece a combattere la forma eterozigote della talassemia.

Anzi proprio la prevenzione e le terapie potrebbero far nascere un nuovo problema.

E’ stato infatti calcolato che se in mancanza di malaria nell’ambiente i soggetti eterozigoti sono destinati a ridursi, fino a scomparire nel giro di cento generazioni, nelle stesse condizioni ambientali, ma in presenza di una prevenzione prematrimoniale e della possibilità che oggi i soggetti omozigoti hanno di mettere al mondo figli, la percentuale di talassemici eterozigoti tende ad aumentare. L’uomo cioè, con il suo intervento, sta sovvertendo la legge della selezione naturale che da sempre regola il mondo. Una legge per la quale le mutazioni nefaste vengono naturalmente eliminate nel giro di qualche generazione.

Ciò autorizza a pensare che in futuro la talassemia sarà una malattia, seppur meno grave, sempre più diffusa fra tutte le popolazioni della Terra.


STORIA DELLA TALASSEMOLOGIA


1. Ippocrate

Le prime descrizioni mediche che si possono ritenere attinenti alla talassemia risalgono all’opera di Ippocrate.

Questi fu indubbiamente il più famoso medico greco di tutta l’antichità, originario dell’isola di Kos, situata nell’arcipelago delle Sporadi meridionali visse tra il V e il VI secolo a.C..

Di Ippocrate, che apparteneva alla famiglia degli Asclepiadi, la quale si vantava di discendere dal dio della salute Asclepio, è giunta fino a noi un’opera tanto maestosa quanto eterogenea raccolta nei 60 testi del Corpus Hippocraticum, del quale solo poche parti sono scritte sicuramente da lui e le rimanenti vi vennero aggiunte da altre mani nel corso dei secoli.

Nel paragrafo 333 delle “Prenozioni di Cos” Ippocrate parla di bambini nella prima e seconda infanzia che mostrano debolezza, un brutto colore, una respirazione accelerata nel camminare, insieme a un desiderio di mangiare terra. Tutti particolari che denotano astenia da probabili alterazioni ematologiche.

Alterazioni ematologiche che non devono però far pensare esclusivamente a talassemia, potrebbe infatti trattarsi di bambini affetti da anemia da carenza di ferro.

Questa anemia era certamente molto frequente nell’antichità, in special modo nelle classi inferiori, classi sociali che dovevano fare i conti con le scadenti condizioni alimentari a cui erano costrette.

In particolar modo il desiderio di mangiare la terra, che viene descritto da Ippocrate, è conosciuto con il nome di Pica e può accompagnarsi a questo tipo di anemia.

Ippocrate ci lasciò però un’altra, più dettagliata descrizione di malati probabilmente affetti da qualche forma di emoglobinopatia.

Questa descrizione si trova in un volume delle Collezioni Ippocratiche, nel libro intitolato “Riguardo le malattie interne”, annotazione 32.

In questo libro è riportato quanto segue: ” Un’altra malattia dell’umore nero ( così veniva un tempo definita la bile.) Essa inizia in particolare in primavera e nasce soprattutto dal sangue. La milza è riempita di sangue che prorompe nell’addome. Il male poi attacca la milza, il petto, il torace, la spalla e le scapole. L’intero corpo è di colore plumbeo e sopra gli stinchi ci sono dei piccoli graffi dai quali nascono larghe ulcere. La materia espulsa con gli escrementi è sanguinolenta e rugginosa. Il ventre è duro e la milza come una pietra. Essa è mortale e sono pochi a scamparla.”

Anche in questa descrizione non è possibile chiarire di cosa si trattasse.

Il colorito plumbeo, l’interessamento della milza e del cuore possono suggerire che si trattasse di talassemia. D’altro canto la presenza di ulcere potrebbe fare pensare a casi di drepanocitosi.

Non è neanche da escludere l’ipotesi che si trattasse di casi di leucemia che potrebbero così spiegare la presenza di emorragie.

In ogni caso non è ben chiaro l’andamento stagionale a cui nessuna di queste malattie è collegata e che potrebbe fare pensare a casi di favismo dato che la primavera è la stagione in cui maturano le fave.

Il favismo è una malattia, descritta anche da Pitagora, caratterizzata da crisi emolitiche conseguenti all’ingestione di fave, che provoca una carenza enzimatica. Questa malattia ha comunque un esito che è difficilmente mortale.

L’ipotesi più plausibile è forse quella che Ippocrate descrisse come un’unica malattia casi che invece appartenevano a diverse malattie, quali appunto talassemia, drepanocitosi, leucemia, favismo e probabilmente anche malaria, malattia quest’ultima che è geograficamente sempre presente accanto alla talassemia e dalla quale, come verrà scoperto nel corso del nostro secolo, sono immunizzati i malati di talassemia.


2. La talassemologia prima del 1925

Per secoli la letteratura medica non riporta più descrizioni che possano far pensare ad anemie congenite.

Solo verso la fine del XIX secolo i ricercatori iniziano a cogliere le differenze di alcune sindromi anemiche e a correlarle fra loro.

Molti casi che oggi si possono ricondurre alla talassemia vennero descritti in quel periodo sotto altre denominazioni.

Nel 1882 Cardarelli Somma e Fede riportano alcuni casi di anemia splenica infantile.

Nel 1889 un medico di Praga, von Jaksch, descrisse una anemia infantum pseudoleucemica. Von Jaksch osservò un bambino, poi deceduto, che presentava un quadro clinico di anemia, leucocitosi non francamente leucemica, splenomegalia e febbre. L’autopsia non mostrò alcuno dei mutamenti della leucemia.

Von Jaksch in seguito osservò altri casi simili a questo, mancano comunque, ancora una volta, dati più approfonditi per poter affermare che si trattava di casi di talassemia.

Nello stesso periodo altri colleghi di von Jaksch , fra cui Hayem e Luzet fornirono descrizioni simili di pazienti che per alcune caratteristiche peculiari, fra le quali l’aspetto mongoloide, la familiarità della malattia e il tipo di anemia sarebbero oggi probabilmente diagnosticati come talassemici omozigoti.

Tutte queste descrizioni furono accomunate sotto il nome di anemia di von Jaksch.

Probabilmente molte di queste anemie non avevano come causa una talassemia.

Forse si trattava di altre alterazioni ematologiche, congenite e non, forse si trattava di forme di leucemia a quei tempi non ancora ben diagnosticabili. A volte, ancora, poteva trattarsi di banali infezioni o di malattie particolarmente debilitanti, quali la malaria o alcune parassitosi; spesso veniva confuso quanto era attribuibile alla malattia con quanto era invece da attribuire ad altri fattori quali la predisposizione naturale, le caratteristiche ereditarie o le abitudini di vita.

Va comunque segnalato questo primo interesse per le anemie infantili, interesse che lasciò un segno nella cultura medica. Per i primi trent’anni di questo secolo divenne infatti abitudine comune descrivere ogni anemia infantile non classificabile come carenziale, come anemia di von Jaksch.

Nel 1905 grazie alle ricerche condotte da Pianese fu possibile separare l’anemia splenica infantile dalla leishmaniosi viscerale.

Tra il 1912 e il ’14 furono pubblicate in Italia un gran numero di osservazioni riguardanti casi di anemia di von Jaksch. Osservazioni condotte soprattutto a Napoli e in Sicilia, da Di Cristina, Iemma, Adamo, Cardarelli. Queste osservazioni riguardavano casi che avevano spesso carattere ereditario e manifestazioni particolari. Di Cristina a Napoli, ad esempio, segnalò il naso a sella in due fratelli malati di questa strana anemia, non trova però niente di particolare a carico delle ossa del cranio.

Sempre a Palermo, Adamo insieme ad altri autori fra i quali Francioni e Cantilena descrisse altri casi di anemia di von Jaksch. Nel 1914 Caronia a Napoli descrisse la presenza di naso a sella in 30 malati e in due di essi si trova in presenza anche di facce di aspetto mongoloide, caratteristica tipica della talassemia.


3. 1925, Thomas B. Cooley

Fu soltanto nel 1925 che la talassemia venne identificata come una patologia con sue proprie caratteristiche, diversa dalle altre anemie dell’infanzia.

La prima esatta descrizione e identificazione della talassemia avvenne infatti nel 1925 a Detroit, ad opera del dottor Thomas B. Cooley, insieme al suo assistente, il dottor Pearl Lee.

La scoperta della nuova malattia venne pubblicata sulle pagine della rivista “Transaction of the American Pediatric Society” (vedi fig.?).

La descrizione, che occupava una sola pagina, era intitolata: “Una Serie di Casi di Splenomegalia in Bambini con Anemia e Mutamenti Ossei Peculiari”.

In questa pagina c’è un interessante descrizione della malattia in cinque bambini già diagnosticati affetti da anemia di von Jaksch. Cooley notò e correlò i loro sintomi: anemia, leucocitosi non leucemica, splenomegalia, epatomegalia, un colore giallo-grigio della pelle e alterazioni dello scheletro molto caratteristiche. I globuli rossi di questi pazienti mostravano un’aumentata resistenza alle soluzioni ipotoniche e c’era nel sangue periferico una grandissima quantità di globuli rossi giovani, ancora nucleati, responsabili della leucocitosi, fino a quel momento mai rilevati in così gran numero in una forma di anemia. Le più caratteristiche forme di alterazione scheletrica notate da Cooley erano a carico del cranio che presentava un allargamento osseo che conferiva al volto dei malati in aspetto mongolico, le ossa lunghe era poi affette da una marcata porosi.

Queste anomalie erano, secondo Cooley, così caratteristiche da proporre di classificarle diversamente dalle anemie di von Jaksch.

Cooley propose poi di sottoporre ad indagine radiologica tutti i bambini affetti da anemia con splenomegalia per individuare e meglio studiare le alterazioni da lui notate.

La sua descrizione, così precisa e dettagliata, di questa anemia portò gli altri autori ad identificarla propio con il nome del suo scopritore e venne chiamata morbo di Cooley.

Lo stesso Cooley notò in seguito che questa anemia colpiva solo i bambini figli di immigrati provenienti dai paesi mediterranei, soprattutto Italia, Grecia e Spagna, paesi da cui vi era una forte emigrazione verso gli Stati Uniti negli anni venti e trenta del nostro secolo.

Cooley partendo da queste osservazioni arrivò a dedurre che la talassemia fosse una malattia ereditaria. Dovranno però passare quasi vent’anni perchè questa ipotesi potesse trovare conferma grazie agli studi condotti, fra gli altri, da Wintrope negli Stati Uniti e da Bianco e Silvestroni in Italia.

Cooley ebbe anche il merito di cominciare una precisa ed accurata classificazione di quel gruppo eterogeneo di anemie infantili che, fino a quel tempo, erano note con il generico nome di anemia pseudoleucemica o anemia di von Jaksch.


4. Dal 1925 al 1934, la prima descrizione di talassemia in Italia.

Nello stesso anno in cui Cooley fece la sua scoperta, anche in Italia, parallelamente si fecero delle osservazioni che avrebbero potuto portare ad identiche conclusioni. Così non fu, ma vediamo cosa accadde.

Nel 1925 a Ferrara, Fernando Rietti, allievo del Prof. A. M. Luzzato, la cui scuola ematologica darà tanti contributi alla ricerca sulla talassemia, descrisse due casi di pazienti anemici simili a quelli descritti da Cooley.

Rietti non colse però la relazione con il morbo di Cooley e chiamò l’anemia da lui osservata: “ittero emolitico con resistenza globulare aumentata o I.E.R.G.A.”.

Oggi è possibile ritenere che quella di Rietti fu la prima descrizione in senso assoluto di malati adulti portatori di talassemia eterozigote. La sua descrizione mette infatti alla luce i caratteri distintivi della condizione eterozigotica e cioè la policitemia, le resistenze globulari costantemente aumentate, il carattere familiare dell’affezione.

Le osservazioni di Rietti verranno poi integrate da quelle di molti altri studiosi fra cui Greppi che nel 1928 descrisse i casi di due sorelle e Micheli che tenne una relazione a proposito in un congresso a Genova nel 1929.

Dal nome di questi tre studiosi l’ittero emolitico con resistenza globulare aumentata verrà chiamato: “malattia di Rietti-Greppi-Micheli”.

E’ lo stesso Micheli, nel già citato congresso di Genova del 1929 a porre i primi dubbi sulla diagnosi proposta a suo tempo da Rietti. Secondo Micheli l’aspetto caratterizzante dell’ittero emolitico è la resistenza globulare diminuita, perciò in presenza di una resistenza globulare aumentata non si può più parlare di ittero emolitico. Micheli capisce di trovarsi di fronte ad un’altra malattia ma anche lui non riesce a coglierne le relazioni con il morbo di Cooley.

Sarà infatti necessario aspettare gli anni ’40 perchè ciò avvenga. Frattanto, negli anni ’30 si continuò a parlare tanto di questo ittero emolitico e si cercò di spiegare con interpretazioni addirittura assurde (così le definisce la dott. Ida Bianco) questo aumento della resistenza globulare invece di una sua diminuzione.

La figura di ittero emolitico con resistenza globulare aumentata continuò così a sopravvivere per tanti anni pur essendo una sindrome tanto strana da venire classificata come ittero emolitico pur avendo la resistenza globulare aumentata anziché diminuita e pur non riuscendo a darne una spiegazione.

I ricercatori italiani negli anni che seguirono la scoperta di Cooley si imbatterono spesso anche in casi di talassemia maior ma ancora una volta non riescono a coglierne le relazioni con il morbo di Cooley. Per esempio, nel 1929 a Cagliari, Careddu, allievo del Prof. Frontali, ignorando le pubblicazioni di Cooley, continuò a descrivere malati che avevano l’aspetto del viso caratteristico della talassemia e di cui riportò anche una fotografia in cui si nota l’aspetto mongoloide e l’aumento del volume del cranio, come affetti da rachitismo e non da un’alterazione ereditaria. Fino al 1933 ci sono in Italia osservazioni di malati di talassemia che vengono descritti con tutt’altre forme di anemie e di malattie quali rachitismo, lue, tubercolosi, malaria.

A giustificare l’incapacità dei ricercatori italiani a determinare la relazione fra l’ittero emolitico con resistenza globulare aumentata e il morbo di Cooley vi è il fatto che i lavori di Cooley cominciarono ad essere conosciuti in Italia solo nel 1933-’34, inoltre in quel periodo gran parte della letteratura medica italiana non era disponibile in America tant’è che fino al 1940 i ricercatori americani ignorarono la malattia di Rietti-Greppi-Micheli che venne autonomamente individuata da Wintrobe e Damesheck e ribattezzata rispettivamente “disordine ematopoietico familiare” e “anemia a cellule a bersaglio”. I rapporti fra i ricercatori dei due continenti si interruppero completamente durante la Seconda Guerra Mondiale.

Nel frattempo negli Stati Uniti appariva sempre più chiaro che il morbo di Cooley colpiva in modo predominante le razze mediterranee. Fu per questa ragione che nel 1932 Whipple e Bradford proposero per indicare la malattia il termine talassemia derivante dalla parola greca “Qalassa” (talassa) che significa “mare” e quindi il Mediterraneo, dai greci antichi inteso come mare per eccellenza. I puristi hanno cercato di sostituire la dizione talassanemia a talassemia ma sempre senza successo.

Un aneddoto racconta che Whipple propose la parola talassemia per via di un ricordo scolastico: “Talassa! Talassa!” era l’esclamazione dei soldati di Senofonte di fronte al mare ritrovato dopo una lunga marcia nei territori dell’Asia Minore. Whipple non si ricordò però che in quel caso si trattava del Mar Nero e non del Mediterraneo. Fu quindi grazie a questo errore di memoria che Whipple coniò il termine per definire questa malattia: il termine talassemia ebbe grande fortuna ed ancora oggi è il più usato in tutto il Mondo.

Come già detto i lavori di Cooley cominciarono a essere noti in Italia nel 1933 e, infatti, l’anno successivo comparve la prima descrizione europea di un bambino affetto da anemia di Cooley.

Autore di questa descrizione è Ferruccio Ravenna, pure lui formatosi a Ferrara presso la scuola di ematologia del Prof. A. M. Luzzato. Ravenna, con la collaborazione di C. Cannella pubblica nel 1934 un’opera dal titolo: “Una forma nuova di grave anemia infantile associata ad osteoporosi diffusa”, opera che è considerata appunto la prima descrizione di un caso di talassemia in Europa.

A questa scoperta Ravenna non giunse da solo ma utilizzò il lavoro compiuto l’anno precedente da altri due ricercatori di Ferrara: il pediatra M. Ortolani e il radiologo G. Castagnari.

Nella seduta dell’Accademia delle Scienze di Ferrara tenutasi il 17 giugno 1933 M. Ortolani e G. Castagnari presentarono il caso “Di una particolare distrofia ossea in una bambina di sei anni “, in quella seduta i due ricercatori portarono la stessa bambina e le sue radiografie. Il caso venne però studiato esclusivamente dal punto di vista radiografico e non vi fu alcun accenno al quadro ematologico.

Il 7 giugno 1934 i due autori ripresentarono all’Accademia il loro caso e propio pochi giorni dopo, il 21 giugno apparve la comunicazione di F. Ravenna e C. Cannella, preludio alla già citata pubblicazione che ci sarà da li a poco. Nella stessa seduta del 7 giungo 1934 Castagnari fece una comunicazione intitolata “Sindrome radiologica del morbo di Cooley” che si riferisce a un lavoro da lui pubblicato a Bologna nel 1933.

Stando così le cose sembrerebbe che il merito della prima pubblicazione tocchi a Castagnari se non fosse che Ortolani rivendicò la priorità della segnalazione affermando di essere stato lui a mandare il caso da Castagnari per farlo studiare dal lato scheletrico. Questa rivendicazione è avvalorata dalla dichiarazione di Rietti che riferì che fu proprio Ortolani, grazie alla conoscenza dei lavori americani da poco giunti in Italia, a identificare il caso di morbo di Cooley poi oggetto della pubblicazione bolognese del 1943 di Castagnari.

Cercando di dare ad ognuno i propri meriti si può affermare che Ortolani, pediatra e valente ricercatore, ebbe il merito di aver riconosciuto questa forma morbosa; toccò poi al radiologo Castagnari l’onore di dare a questa forma di anemia una collocazione precisa.

Infine a Ravenna va il merito di avere pubblicato, per primo in Europa, il quadro clinico e radiologico completo di questo caso di anemia da morbo di Cooley.

Dal 1934 in avanti si moltiplicarono le segnalazioni di nuovi casi di morbo di Cooley in Italia come anche in Grecia. La maggior parte di queste segnalazioni veniva da Ferrara. In tale città era sufficiente camminare per strada per imbattersi in questi malati tanto essi erano frequenti. Di questi malati la maggior parte moriva entro i primi quattro-cinque anni di vita, altri, colpiti da forme più lievi, vivevano più a lungo. Questi, come ricorda la dott. Bianco che a Ferrara lavorò fin dalla metà degli anni ’40, privi come erano di cure adeguate si deformavano moltissimo ed erano quindi chiaramente riconoscibili.

Nonostante il quadro clinico del morbo di Cooley fosse ormai noto e nonostante si moltiplicassero le segnalazioni di sempre nuovi casi, ancora per diversi anni questa malattia venne in alcuni casi confusa, non più con le anemie splenomegaliche ma con le sindromi eritoblastiche infantili.


5. Verso il concetto di ereditarietà.

Dal 1925, anno della scoperta di Cooley, per più di un decennio nessun ricercatore parlò mai di ereditarietà dell’anemia mediterranea, questo benché la malattia colpisse pazienti che spesso potevano vantare legami di familiarità fra di loro e malgrado la presenza di particolari caratteri che qualche volta erano stati identificati nei genitori dell’ammalato. Per spiegare la diffusione di questa malattia in determinati gruppi di popolazione, per anni, si parlò di varie altre cause acquisite: la lue, la tubercolosi, la malaria e il rachitismo.

Si dovette aspettare fino al 1935 perché la talassemia potesse essere riconosciuta come malattia genetica, il merito di questo notevole passo avanti nella ricerca fu di Lhendorff che per primo riconobbe nella talassemia il prodotto di una mutazione genetica. Lhendorff, una volta chiarita l’origine genetica della malattia, si trovò di fronte al problema di spiegare come tale malattia potesse essere trasmessa di generazione in generazione dal momento che i soggetti colpiti non potevano raggiungere l’età riproduttiva. Per risolvere tale problema, Lhendorff, ipotizzò che vi potessero essere degli individui che mantevano una predisposizione alla malattia pur rimanendo sani. Si trattava della prima acerba ipotesi di trasmissione ereditaria della talassemia.

Con la seconda metà degli anni ’30 cominciarono a comparire nella letteratura medica da prima sporadiche e poi sempre più frequenti osservazioni condotte su parenti di ammalati di morbo di Cooley.

Ortolani analizzò il padre di due bambini talassemici descrivendone la fisionomia orientale e segni di diatesi emolitica.

Pontoni descrisse in due fratelli di malati di talassemia l’aumento del volume della milza e del fegato oltre a tracce di osteoporosi.

Angelini nel 1937 condusse delle ricerche su 26 soggetti appertenenti a sei famiglie in cui vi erano individui malati di talassemia. Angelini ne studiò il comportamento della resistenza globulare e della bilirubinemia e constatò come tutti i genitori degli ammalati presentassero un aumento della resistenza globulare massima. Lo stesso fattore era in linea di massima riscontrabile anche nei fratelli degli ammalati.

Pur essendo sulla strada giusta Angelini non riuscì a cogliere il vero legame fra genitori e figli.

Anche il Prof. Frontali, continuando sulla strada di Angelini, rimase sostenitore dell’emolisi come causa della malattia. Fu però merito di Frontali, insieme a Rasi, l’avere riconosciuto l’esistenza di rapporti diretti tra la malattia di Rietti-Greppi-Micheli e il morbo di Cooley. Questi due ricercatori individuarono infatti dei caratteri uguali nei familiari di malati delle due malattie. Però pur avendo capito che vi era un rapporto, non riuscirono a determinare i veri legami intercorrenti tra il morbo di Cooley e la malattia di Rietti-Greppi-Micheli.

Nel 1939 toccò ad un ricercatore greco, Caminopetros, compiere un passo avanti verso la scoperta dell’ereditarietà della talassemia. Caminopetros fece infatti una serie di studi su malati e su parenti di malati di talassemia.

Il ricercatore greco fu il primo ad aver dimostrato che tracce della malattia erano riscontrabili oltre che nei fratelli anche negli ascendenti e nei collaterali dei malati.

Caminopetros, analizzando quattro famiglie segnalò la presenza di resistenze globulari aumentate e di alterazioni delle ossa del cranio in genitori di malati, causate, secondo lui, da un’alterazione dell’ematopoiesi che si trasmette ereditariamente come carattere recessivo in base alla legge mendeliana.

Caminopetros fu quindi il primo ricercatore a pensare di essere in presenza di un carattere mendeliano che viene trasmesso ereditariamente dai genitori ai figli.

Sempre nel 1939, tornando in Italia, Chini Ferrannini e Pona, compirono degli studi su dieci soggetti appertenenti ad una famiglia in cui vi era un malato di talassemia.

I tre ricercatori riuscirono a individuare dei caratteri ematologici che oggi potrebbero fare pensare a forme di talassemia minor. Ancora una volta non si giunse però che a risultati molto incerti e confusi.

Tali risultati benchè fecero sospettare l’ereditarietà del male erano ancora troppo esigui per permettere di determinare con esattezza il tipo di ereditarietà con cui viene trasmessa la talassemia. Inoltre non fugarono del tutto il sospetto che le cause di quei particolari caratteri ematologici fossero da addebitarsi a stigmati morbose generiche.

Nel 1940 a Napoli si tenne un Congresso della Società Italiana di Pediatria che ebbe per tema le anemie emolitiche ereditarie.

Al Congresso erano presenti i maggiori pediatri italiani dell’epoca: Frontali, Rasi, Angelini; al centro della discussioni venne posto il morbo di Cooley. Tutto farebbe pensare che potesse essere la volta buona per sciogliere il nodo dell’ereditarietà della talassemia. Al Congresso vengono infatti riportate le osservazioni condotte sui parenti dei malati di talassemia, ma ancora una volta l’esito è sterile e le discussioni si perdono nell’ambiziosa rivendicazione della priorità degli studi italiani nel campo del morbo di Cooley. Rivendicazioni piuttosto pretenziose visto che sebbene ci fossero sì state varie osservazioni prima di Cooley queste non seppero mai giungere all’identificazione della malattia. Il congresso si concluse con la richiesta al Ministero degli Interni della nomina di una commissione che studiasse il morbo di Cooley in Italia.

Nel 1943 a Palermo il Prof. Gatto compì una importante ricerca sui familiari di malati di morbo di Cooley appartenenti a otto distinti nuclei familiari.

In tutti i componenti delle otto famiglie Gatto studiò il comportamento dell’emoglobina, il numero dei globuli rossi, i leucociti, ed il comportamento della resistenza a soluzioni ipotoniche. In alcuni di questi soggetti Gatto analizzò l’aspetto antropometrico del cranio e della faccia oltre a fare un’indagina radiologica dello scheletro.

Nelle righe che seguono è riportata la descrizione delle ricerche condotte sulla prima famiglia da Gatto:

Di L. Pietro, di Angelo, di anni 3 e mezzo da Palermo. osservato ambulatoriamente il 10-V-1941.

Dall’età di tre mesi ha presentato pallore ed aumento di volume dell’addome. Ha presentato a periodi aggravamenti con pallore più marcato, che sono stati superati in seguito a cure opportune. Dall’età di sei mesi ha praticato a periodi cure di iniezioni di estratti epatici, ferro per os e trasfusioni di sangue ed irradiazione della milza. Faccia appiattita, zigomi sporgenti, naso largo con radice appiattita, prognatismo. Accrescimento deficiente. Colorito della cute e mucose visibili pallido. Sclere subitteriche. La milza oltrepassa di 3 dita l’arco costale, il fegato di 2 dita… Esame radiologico del cranio: tipico aspetto a spazzola.

I) Di L. Pietro, di anni 76, nonno paterno. Osservato il 20-VII-41.

Broncopolmonite a 60 anni. Dall’età di 65 anni ha sofferto di arteriosclerosi, durante i primi due anni di questa malattia è stato glicosurico. Apetto pletorico, il fegato oltrepassa di un dito l’arco costale.

…V) Di L. Angelo, di anni 35, padre. Osservato il 27-VII-41.

Da piccolo è sempre stato gracile, mai malattie degne di nota.

VI) R. Caterina, di anni 32, madre (27-VII-41).

Ha avuto due gravidanze, dalla prima è nato l’infermo, l’altro figlio è vivente ed apparentemente sano. Durante la seconda gravidanza ha avuto glicosuria.

…Il primo dato importante che si rivela dallo studio della famiglia Di L. è la conanguineità dei genitori e degli ascendenti. Non solo i genitori ma anche i nonni paterni erano cugini. La madre della nonna paterna ebbe ventiquattro gravidanze, di quattro abortive, e dei figli ben tredici morirono nel primo anno di vita, per malattia non ben precisata (anemia?)… Fra i dati ematologici è da segnalare la presenza nel sangue periferico di scarse cellule endoteliali nel padre e nella madre; di microciti in tutti e quattro i nonni, nei genitori, nella sorella della madre, ed una costante lieve diminuzione del diametro globulare medio. Le alterazioni costanti furono rilevate a carici delle resistenze globulari; la resistenza massima era chiaramente aumentata in tutti i familiari.


Dallo studio degli otto nuclei familiari apparve evidente a Gatto che la malattia aveva carattere familiare. Ciò era testimoniato dal fatto che su otto famiglie analizzate in cinque compariva più di un caso di malattia nella stessa generazione. Inoltre in quasi tutti i familiari di ammalati di talassemia, Gatto riscontrò un aumento della resistenza globulare massima e la microcitosi: su ventisei familiari esaminati solo in uno zio paterno non riscontrò queste condizioni.

In tre casi Gatto, attraverso l’esame radiologico della volta cranica dei parenti di ammalati, notò, in corrispondenza delle ossa frontali, una striatura radiale che faceva pensaere ad uno stadio iniziale del tipico cranio a spazzola dei talassemici.

Le osservazioni da lui direttamente condotte, unite all’analisi di casi precedenti, lo persuasero del fatto che, essendo documentata l’esistenza di individui che pur essendo apparentemente sani o solo lievemente malati, possono trasmettere la malattia ai propri discendenti, la talassemia doveva essere provocata da un carattere trasmissibile ereditariamente.

Dunque, come già aveva fatto Caminopetros anche Gatto giunse a formulare l’ipotesi di trovarsi di fronte ad un fattore ereditario che viene trasmesso come carattere mendeliano per cui dei geni innocui a livello eterozigote divengono invece letali nel soggetto omozigote.

Gatto tentò di determinare anche la legge con cui si trasmette la tara genetica, capì infatti che “da due genitori con stigmate dovrebbe aversi il 25% omozigoti e quindi ammalati, 50% eterozigoti quindi con stigmate e capaci di trasmettere la malattia, 25% sani”.

Le sue sono però soltanto delle ipotesi, come da lui affermato, mancavano infatti sufficienti osservazioni per poter provare definitivamente il carattere ereditario della talassemia

In ogni caso il carattere ereditario non è ancora del tutto chiaro neanche a Gatto, il quale erroneamente ritiene ” logico pensare ad una trasmissione per via dominante”.

Le osservazioni di Gatto come già quelle di Caminopetros, benchè molto vicine a svelare la realtà della trasmissione ereditaria della talassemia, non ebbero alcun seguito e rimasero nella letteratura medica come casi relativamente isolati.

Questo era dunque il livello di conoscenze a cui si era arrivati in Italia dove, a causa della guerra che aveva interrotto ogni collegamento con il resto del Mondo, non si poteva sapere che negli Stati Uniti d’America già da alcuni anni era stata definitivamente descritta la forma eterozigote della talassemia.

Nel 1940, infatti, Wintrope ed alcuni suoi colleghi descrissero alcune alterazioni tipiche della talassemia rilevate nel sangue di 40 membri di 3 famiglie di origine italiana. Le osservazioni condotte presso il Johns Hopkins Hospital di Baltimora (U.S.A.), mostrarono come molti dei soggetti osservati erano affetti da splenomegalia e da un moderato ittero. Wintrope capì che si trovava di fronte a casi di una forma più lieve di talassemia e dichiarò di avere trovato quella condizione in entrambi i genitori di un bambino malato di morbo di Cooley. Col suo lavoro Wintrope ebbe quindi il merito di scoprire l’esistenza di una forma eterozigote di talassemia.


6. Ezio Silvestroni e Ida Bianco.

Per analizzare l’importante contributo dato alla ricerca sulla talassemia da Ezio Silvestroni e dalla moglie Ida Bianco bisogna partire dal 1942, anno in cui i due ricercatori erano assistenti presso la Clinica Medica dell’Università di Roma diretta dal Prof. Cesare Frugoni.

In quell’anno, terminata da poco una serie di studi di endocrinologia di tipo sperimentale, il Prof. Silvestroni lesse sulla rivista medica francese Le Sang, il riassunto di un lavoro pubblicato su di una rivista cecoslovacca dal Prof. Hoffman. In questo lavoro si diceva che i malati di Cancro presentano un aumento della resistenza globulare osmotica e che quindi questo poteva essere un fattore importante per la diagnosi di casi di Cancro.

Il Prof. Silvestroni decise allora di verificare personalmente questo dato ripetendo l’esperienza condotta da Hoffman per confermare o nel caso negare il risultato da questi pubblicato.

Silvestroni e Bianco iniziarono perciò a esaminare un centinaio di malati di Cancro in fase terminale oltre a cinquanta soggetti sani. Risultò da questi esami che effettivamente fra i malati di Cancro era presente molto spesso un aumento della resistenza globulare, resistenza globulare che venne però rilevata anche in qualche soggetto sano.

Stimolati e incuriositi da questo dato inaspettato, Silvestroni e Bianco non si fecero sfuggire queste osservazioni e iniziarono uno studio successivo condotto su soggetti sani scelti a tappeto: incominciarono infatti a prelevare campioni di sangue fra tutte le persone che stavano in Clinica Medica, il personale, gli assistenti, gli infermieri e quanti passavano dal pronto soccorso.

In questo secondo studio arrivarono a esaminare quattrocento soggetti con un’età compresa tra i 16 e i 60 anni tra i quali ne trovarono sette che avevano un aumento della resistenza globulare.

Silvestroni e Bianco non si fermarono però a identificare e descrivere l’aumento della resistenza globulare, traguardo che era daltronde già stato raggiunto da altri ricercatori, ma andarono oltre componendo un quadro di caratteri ematologici tipici della talassemia minor che è valido ancora oggi.

Questi caratteri allora descritti sono l’aumento dei globuli rossi, una diminuzione dell’emoglobina definita allora ipotonia e oggi chiamata MCH ridotto, un volume globulare ridotto, l’alterazione della forma dei globuli rossi e un aumento della resistenza osmotica dei globuli rossi alle soluzioni salino-ipotoniche.

I risultati di queste ricerche vennero pubblicati in una comunicazione tenuta presso l’Accademia Medica di Roma nella seduta del 26 novembre 1943.

In questa comunicazione Silvestroni e Bianco oltre a fornire il già citato quadro completo dei caratteri ematologici della malattia giunsero ad altre fondamentali conclusioni. Per prima cosa, già da questa prima comunicazione i due ricercatori capirono che si trattava di una malattia ereditaria che si trasmette ai discendenti come un carattere dominante. Seguirono infatti il modo di trasmissione del carattere in 3 dei 7 soggetti malati e trovarono che quando uno dei due genitori è affetto da malattia parte dei figli resta immune e parte ne risulta colpita con una percentuale del 50%. Quando invece entrambi i coniugi sono immuni, pur discendendo da genitori ammalati, i figli risultano immuni. Sempre per quel che concerne la trasmissione ereditaria della malattia Silvestroni e Bianco riferirono che si trasmette senza alcuna distinzione di sesso.

Fin da questa prima comunicazione i due ricercatori dipinsero un quadro completo e preciso della trasmissione ereditaria della talassemia. Continuando nelle loro ricerche descrisserro poi i rapporti che intercorrono fra questa malattia e la malattia di Rietti-Greppi-Micheli.

Dove invece commisero un errore fu nel dichiarare che non esistevano relazioni tra questa malattia, da loro chiamata microcitemia, e il morbo di Cooley.

Per fugare ogni dubbio a riguardo condussero anche degli esami radiografici della teca cranica dei sette soggetti ammalati di microcitemia. Esami che portarono Silvestroni e Bianco a dichiarare che non esistevano nei sette soggetti microcitemici ne i caratteri somatici e scheletrici, ne la splenomegalia e il grado notevole di anemia tipici dei malati di talassemia.

In ogni caso, pur avendo inizialmente negato ogni legame fra la microcitosi e il morbo di Cooley, Silvestroni e Bianco iniziarono una serie di ricerche allargate anche ai malati di talassemia e a i loro genitori.

In quegli anni però non vi erano ancora molti medici capaci di diagnosticare bene i casi di talassemia, cosicché arrivarono all’esame di Silvestroni e Bianco malati a cui era stata diagnosticata la talassemia ma che talassemici non erano.

Questi errori crearono confusione nella casistica dei dati raccolti, casistica in cui finirono anche soggetti non colpiti da morbo di Cooley e che disorientò Silvestroni e Bianco, i quali avevano sì trovato che nella maggioranza dei casi la microcitemia era presente in entrambi i genitori del malato, ma erano anche stati confusi da quei casi in cui, causa l’errore diagnostico, la regola non veniva confermata.


7. Ezio Silvestroni e Ida Bianco, le campagne di ricerca in Italia.

Nella primavera del 1946 il Prof. Ortolani, direttore dell’Istituto Provinciale per l’Infanzia di Ferrara, fece un appello attraverso le riviste mediche affinché le scuole pediatriche, mediche ed ematologiche di tutta Italia inviassero presso il suo Istituto degli studiosi col fine di eseguire indagini sul morbo di Cooley.

Silvestroni e Bianco furono i soli a rispondere all’appello e dal 1946 al 1961 furono ogni anno ospiti, per il mese di agosto del Prof. Ortolani.

La Prof. Bianco ricorda ancora oggi quel loro primo viaggio del lontano 1946, anno in cui a causa dei non ancora riparati danni causati dalla guerra ogni spostamento era molto difficoltoso. Difficoltoso a tal punto che Silvestroni e Bianco riuscirono a procurarsi i biglietti ferroviari da Roma per Ferrara soltanto facendo ricorso alla borsa nera. Una volta a Ferrara la Prof. Bianco venne ospitata presso un brefotrofio gestito da suore.

Grazie all’amicizia dimostrata dal Prof. Ortolani e dal suo aiuto Dott. Vallisneri il lavoro procedette con grande entusiasmo in un ambiente molto cordiale. La popolazione si dimostrò assai accogliente e disponibile alle richieste, vi erano infatti sempre altissime adesioni allo screening e i sindaci dei comuni visitati davano tutto il loro appoggio convocando le giovani coppie risiedenti nel loro comune. Il vitto e i mezzi di trasporto venivano forniti dall’Amministrazione Provinciale di Ferrara di cui erano presidenti l’avvocato Diozzi e l’ingegnere Carpeggioni.

Per compiere il loro lavoro di screening Silvestroni e Bianco misero a punto un metodo tanto efficace quanto semplice: determinavano infatti la resistenza globulare attraverso la soluzione 0,4 del metodo di Simmel. Per prima cosa la Dott.a Bianco pungeva il polpastrello con l’ago di Frank, prelevava poi il sangue e lo deponeva in una pipetta porta globuli rossi, a questo punto lo diluiva con la soluzione 0,4 e ne faceva lo strascico. Dopo qualche minuto Silvestroni leggeva il risultato guardando la pipetta in controluce e lo registrava. Per sterilizzare l’ago di Frank la Dott.a Bianco teneva davanti a sé dieci boccettine piene di alcool in cui immergeva gli aghi usandoli a rotazione.

I risultati di questa prima campagna ferrarese furono comunicati all’Accademia Medica di Roma il 30 novembre 1946 e successivamente pubblicati su Minerva Medica in un numero che uscì però solo nel 1948.

In queste loro ricerche Silvestroni e Bianco avevano trovato 40 bambini malati di morbo di Cooley nei cui genitori, in 38 casi, fu riscontrata la presenza di talassemia minor o microcitemia come viene chiamata dalla coppia di ricercatori romani. Questi dati erano l’inizio della definitiva dimostrazione che la talassemia è una malattia ereditaria causata dalla forma omozigote della microcitemia.

Nel 1947 i due ricercatori si recarono nuovamente a Ferrara per riprendere le ricerche. L’anno precedente la campagna di screening era stata condotta nei vari comuni della provincia esaminando per lo più dei piccoli nuclei infantili che si trovavano alloggiati presso colonie estive e ospizi, o che venivano portati nei consultori dell’O.M.N.I. (Opera Nazionale Maternità e Infanzia); nella primavera del 1947 le ricerche vennero invece condotte a Ferrara presso le scuole elementari e sugli operai delle fabbriche cittadine. In agosto poi Silvestroni e Bianco si trasferirono nei paesi della provincia per analizzare i familiari dei soggetti che erano precedentemente risultati microcitemici.

In totale vennero individuate 346 famiglie in cui era presente la microcitemia.

Il 1948 fu l’anno forse più importante e sicuramente di più intenso lavoro per le campagne di screening dei due ricercatori che viaggiarono tutto l’anno conducendo ricerche presso le scuole elementari di tutte le principali città del Nord Italia. Nell’agosto di quello stesso anno Silvestroni e Bianco si recarono in Sicilia a condurre una campagna di ricerche organizzata con il patrocinio dell’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità del Ministero dell’Interno.

Una volta giunti sull’Isola i due ricercatori non ebbero alcun appoggio da parte delle Autorità locali che offrirono una collaborazione molto scarsa, daltronde la regione, assai colpita dalla guerra, era ancora quasi priva di strutture sanitarie.

La Prof. Bianco ricorda che a Palermo le autorità le negarono ogni mezzo di trasporto; a Gela furono ospitati a dormire nell’ospedale della città, ospedale che era sito in un fatiscente convento medioevale dalle cui anguste celle che si aprivano sui lati di un lungo corridoio, una volta riservate al riposo e alla preghiera dei monaci, erano oggi ricavate le stanze in cui erano ricoverati i malati e in cui vennero alloggiati i due ricercatori romani. Stanze che, come ricorda la Prof. Bianco, erano pervase da un’aria afosa e maleodorante nella quale si trovavano a loro agio solo gli sciami di mosche che contribuivano a rendere insopportabile quell’angusto ambiente. In ogni caso fuori dalle mura dell’ospedale la situazione non era molto migliore, mancava infatti la rete fognaria in tutta Gela..

Dal canto suo anche la popolazione si dimostrava ostile, chiusa e diffidente al punto che, malgrado l’invito a presentarsi alle analisi inoltrato a tutte le coppie di coniugi, di queste coppie non se ne vide alcuna, giunsero invece alcuni anziani e alcune persone malate di tutt’altre malattie che la talassemia, speranzosi solo di poter ottenere una visita medica o qualche medicinale. Silvestroni e Bianco dovettero cambiare la loro metodologia di ricerca e ripiegarono sugli asili e le colonie estive. Riuscirono alla fine della campagna Siciliana a esplorare 22 località.

Per finire il lavoro di quell’anno si spostarono da ultimo in Calabria, regione che si trovava più o meno nelle stesse condizioni della Sicilia.

Alla fine del 1948 Ezio Silvestroni e Ida Bianco avevano esaminato 30.000 persone dimostrando attraverso le casistiche che il morbo di Cooley è l’espressione omozigotica della talassemia minor o microcitemia. Le ricerche erano anche servite a delineare la prima mappa della distribuzione della microcitemia in Italia. Mappa che nei suoi caratteri generali è rimasta da allora confermata è che vede nelle regioni dell’Italia meridionale ed insulare e nel territorio che circonda il delta del Po, le aree italiane più colpite dalla talassemia.

Questa mappa riporta le seguenti percentuali di microcitemici nelle province considerate:


Milano: 1,3%


Bologna: 0,8%


Messina: 2,8%


Torino: 0,9%


Firenze: 0,4%


Catania: 3,6%


Genova: 1,5%


Ancona: 1,6%


Siracusa: 4,2%


Padova: 2%


Roma: 1,6%


Caltanissetta: 2,7%


Rovigo: 9,7


Napoli: 1,7%


Palermo: 4,4%


Ferrara: 7,3%


Torre A.(NA): 2,7%


Agrigento: 7,6%


Codigoro(FE): 16%


Lecce: 6,2%


Ravenna: 3,7%


Reggio Cal.: 3,5%


8. Rapporti fra talassemia e malaria.

Con l’apparire delle prime mappe sulla distribuzione della talassemia iniziò a risultare evidente come le zone più colpite dalla talassemia coincidessero con le zone in cui in passato la malaria era stata endemica.

Questa constatazione portò, sul finire degli anni 30, prima ancora che venissero chiariti i rapporti che potevano esserci fra le due malattie, ad iniziare esperimenti terapeutici su malati di talassemia sfruttando appunto questi rapporti.

Così nel 1939, mentre il Prof. Chini dichiarava che il campo dei rapporti tra anemia mediterranea e malaria era ancora dei più oscuri, ponendo anche dubbi sulla reale esistenza di rapporti fra le due malattie, Spiliopulos si vantava di aver conseguito buoni risultati terapeutici da un intenso trattamento antimalarico su pazienti talassemici e ne proponeva l’uso sistematico. Contemporaneamente Caminopetros consigliava come mezzo di cura dei malati di talassemia la inoculazione in essi dell’infezione malarica.

Pochi anni più tardi, nel 1943, Ortolani pubblicò un lavoro dal titolo ” Tentativi d’inoculazione del parassita malarico in pazienti affetti da anemia di Cooley”seguendo evidentemente i consigli di Caminopetrus.

Tutti questi esperimenti terapeutici non portarono ad alcun frutto e questo filone di ricerca andò presto esaurendosi.

L’esistenza di un legame tra le due malattie era però talmente evidente che a tale proposito vennero elaborate varie teorie. Fra queste bisogna ricordare che, nel 1942, Gatto ipotizzò che l’infestazione malarica degli ascendenti dei malati di talassemia potesse essre la causa dell’insorgenza della mutazione genetica.

Probabilmente il primo ricercatore a capire che i termini del discorso andavano invertiti fu Haldane, il quale nel 1949 ipotizzò che gli individui portatori di talassemia potessero essere più resistenti delle persone normali di fronte alla malaria. L’ipotesi era dunque quella giusta, non rimaneva che dimostrarla.

Osservando il quadro epidemiologico delle due malattie fu sempre più chiara a tutti i ricercatori la sovrapposizione fra le zone colpite dalla malaria e quelle in cui vi è una maggiore prevalenza di sindromi talassemiche oltre che di malati di emoglobina S e di enzimopenia G6PD (vedi fig.?).

Il problema era ora capire se questa distribuzione delle alterazioni genetiche fosse prodotta da una semplice e casuale deriva genetica o da una vera selezione prodotta dalla malaria.

Nel caso della deriva genetica, questa solitamente è più legata a migrazioni che all’ambiente, inoltre dovunque la mutazione si diffondo questa deve rimanere identica, nel caso della talassemia invece le ricerche condotte negli anni ’50 dimostrarono l’esistenza di una enorme eterogeneità delle sindromi talassemiche che esclude la possibilità che tale malattia si possa essere diffusa per semplice deriva genetica.

Altro dato che testimonia che vi è una selezione genetica è la stretta correlazione tra le zone più colpite dalla talassemia e la loro altezza sul livello del mare: più i villaggi sono prossimi alle coste e più vi sono talassemici; la stessa correlazione vi è anche fra le zone dove la malaria è o fu endemica e la loro altezza sul livello del mare.

Queste osservazioni diedero ai ricercatori la quasi certezza che la malaria selezionava la popolazione favorendo i portatori eterozigoti di talassemia oltre che di emoglobina S e di enzimopenia G6PD.

Perchè ciò fosse possibile i globuli rossi di questi soggetti dovevano offrire una resistenza al Plasmodium Falciparum, responsabile della malaria terzana maligna, maggiore rispetto a quella offerta dai globuli rossi di soggetti normali.

Questa protezione poteva avvenire attraverso tre differenti meccanismi. In primo luogo può accadere che il parassita non riesca ad entrare nel globulo rosso fallendo l’infezione. In un secondo caso il parassita potrebbe entrare nel globulo non riuscendo però a svilupparvisi che parzialmente (infezione abortiva). Infine, potrebbe accadere che il parassita entri, si sviluppi ma prima che avvenga la liberazione di nuovi parassiti il globulo rosso venga prematuramente rimosso (infezione suicida).

Miller nel 1975 dimostrò che nel caso del plasmodium vivax l’infezione fallisce sul nascere, ciò però non riguardava il plasmodium felciparum, ben più importante per gravità e diffusione.

Nel 1970 Luzzato e altri ricercatori riuscirono a dimostrare come nel caso dell’emoglobina S i globuli rossi infetti dal plasmodium Falciparum andassero incontro a una distruzione precoce come nel caso di infezione suicida.

Ancora oggi rimane invece da scoprire come funziona il meccanismo di protezione nel caso della talassemia.



9. 1949, l’ereditarietà della talassemia.

Nel 1949 si tenne in Italia un congresso, della Società Italiana di Medicina Interna, che trattava delle emopatie costituzionali.

Il Prof. Ezio Silvestroni ebbe l’incarico di trattare, quale relatore ufficiale il tema delle emopatie ereditarie: microcitemia o talassemia minor e morbo di Cooley.

Questo congresso diede quindi l’occasione a Silvestroni di riassumere tutti i risultati dei primi sette anni di ricerca sulla microcitemia.

Quella fu perciò la sede in cui venne esposta la teoria, suffragata da migliaia di casi analizzati, che il morbo di Cooley è l’espressione della condizione omozigotica della microcitemia.

Questa teoria non venne accettata dall’ambiente medico ivi riunito se non dopo lunghi dibattiti ed aspre polemiche.

Polemiche che erano già iniziate prima di quel congresso: quando Silvestroni e Bianco si scontrarono con Momigliano Levi, un autore che aveva descritto casi di I.E.R.G.A. e di morbo di Cooley, il quale sosteneva che alla base di queste malattie vi fosse un fattore emolitico primitivo essenziale e non un fattore ematologico.

Un altro attacco alle teorie di Silvestroni e Bianco fu portato da un gruppo di ricercatori sardi i quali dopo una serie di ricerche condotte in Sardegna negarono l’esistenza della microcitemia basando la loro asserzione sul fatto che avevano trovato soggetti che potevano avere ora l’aumento ora la riduzione della resistenza globulare, ora la microcitosi ora la macrocitosi, ora l’iperglobulia ora l’assenza di iperglobulia.

Le discordanze maggiori che i due ricercatori romani ebbero a quel congresso furono con il Prof. Frontali e la sua scuola di Ravenna.

Frontali, come già detto, aveva anche lui osservato l’esistenza di rapporti fra il morbo di Cooley e lo I.E.R.G.A. senza però capire quale vero legame intercorresse fra le due malattie. Il suo allievo Angelini aveva invece notato che nei genitori di soggetti malati di talassemia vi era la presenza di un carattere ematologico particolare, cioè l’aumento della resistenza globulare. Anche Angelini non arrivò a collegare quel carattere particolare con la talassemia.

Al congresso Frontali vi arrivò quindi nella convinzione che non fosse ancora per niente chiaro che il morbo di Cooley fosse la condizione omozigotica della microcitemia. La Prof. Bianco ricorda che vi fu allora un violento scontro verbale fra Frontali e Silvestroni in cui il Prof. Frugoni cercò di fare da mediatore. Il congresso, grazie ai dati di fatto presentati dal Prof. Silvestroni, finì comunque con la convinzione ormai accertata che il morbo di Cooley è l’espressione della forma omozigotica della microcitemia.

Sempre durante il congresso il Prof. Silvestroni confutò la teoria secondo cui lo I.E.R.G.A. era ritenuto l’espressione della condizione eterozigotica della talassemia, asserendo che secondo lui era invece l’espressione di una microcitemia con in più la presenza di alcuni geni che l’aggravavano dando luogo ad una forma di talassemia intermedia; questa teoria è ancora oggi valida, la talassemia intermedia può infatti avere origine dalla condizione eterozigotica della talassemia quando si associa a un’altra anomalia ereditaria del sangue quale: la falcemia, una emoglobina abnorme, l’emoglobina c.

Volendo ora attribuire le responsabilità e le priorità nella scoperta dell’ereditarietà della talassemia non bisogna dimenticare che furono senza ombra di dubbio i ricercatori americani a capire per primi che i caratteri della talassemia erano trasmessi dai genitori ai figli .

Ciò avvenne già nel 1940 a Baltimora presso il Jhons Hopkins Hospital per merito del Prof. Wintrobe i cui studi furono continuati e approfonditi negli U.S.A. da Dameshek sempre nel 1940, da Strauss nel 1941 e da Valentine e Neel nel 1944 i quali chiamarono “talassemia minor” la leggera forma di morbo di Cooley di cui erano affetti i genitori dei pazienti talassemici.

Questo però non deve sminuire i meriti dei ricercatori italiani, Silvestroni e Bianco per tutti, i quali, a causa del conflitto mondiale erano totalmente all’oscuro di ciò che accadeva al di là dell’Oceano.

Fu per loro una sorpresa sicuramente spiacevole scoprire, una volta ripresi i collegamenti, che tutte le scoperte fatte in Italia erano state precedute dai ricercatori americani. I ricercatori americani furono però pronti ad ammettere che Silvestroni e Bianco erano all’oscuro di quanto era stato fatto negli U.S.A., a dimostrazione di ciò vi è la corrispondenza tenutasi tra i due ricercatori romani e gli americani Valentine e Neel, corrispondenza assolutamente priva di ogni polemica ma pronta ad ammettere le priorità americane e il fatto che Silvestroni e Bianco erano all’oscuro delle pubblicazioni americane.


10. La ricerca negli anni ’50.

Continuando a seguire gli studi di Silvestroni e Bianco, per tutto il decennio preso in considerazione in questo paragrafo e fino al 1962, vediamo che i due ricercatori proseguirono le loro campagne di ricerca epidemiologica in tutta Italia. Ricerche che, se nel decennio precedente avevano usufruito dei piccoli contributi concessi dal CNR grazie all’interessamento del Prof. Vernoni, professore di Patologia Generale dell’Università di Roma, dal 1952 poterono avvalersi dei più sostanziosi contributi della Rockefeller Foundation. In ogni caso l’aiuto più importante rimase quello dell’Amministrazione Provinciale di Ferrara.

Durante questo decennio le ricerche di Silvestroni e Bianco furono condotte soprattutto nella zona del Delta Padano. Fanno eccezione le campagne condotte nel 1953 nella parte orientale della Sicilia e nel 1960 nella Sardegna meridionale.

Alla fine di questo lungo lavoro di ricerca, la coppia di ricercatori romani aveva esaminato 70.000 soggetti, 38 fra paesi e città delle province di Ferrara e Rovigo, 22 in Sardegna e 28 in Sicilia.

In quello stesso decennio giunsero, da parte di altri ricercatori, ulteriori contributi utili a determinare la diffusione della talassemia in Italia. Nel 1957 Brancati e Cavalcanti fecero ricerche in 54 paesi delle province calabresi di Cosenza e Catanzaro mentre, sempre in quel periodo Carcassi si occupò della Sardegna.

La nuova mappa della diffusione della talassemia in Italia venne presentata nel 1961 al Congresso su ” Il problema sociale della microcitemia e del morbo di Cooley”. (vedi fig.?)

Questa era dunque la distribuzione della talassemia in Italia, ma già dagli anni ’30 si era intuito, attraverso l’osservazione di casi sporadici apparsi in varie parti del mondo, che il morbo di Cooley non era una malattia confinata esclusivamente nel bacino mediterraneo.

Fu così che negli anni ’50 presero il via una serie di studi che avevano il fine di determinare quali erano le zone e le popolazioni del mondo interessate da questa malattia.

Fra gli autori che si occuparono di queste ricerche va ricordato Chernoff che già nel 1956 pubblicò un lavoro sulla diffusione della talassemia in Thailandia, sempre in questo Stato condussero le loro ricerche Minnich, Wasi e Na-Nakorn. Da questi studi emerse che la popolazione tailandese era colpita con un’alta frequenza dalla talassemia, talassemia che risultò presente in 50 diversi genotipi.

Altri studi vennero condotti a Singapore da Vella e da Wong e in Indonesia da Lie-Injo. Anche in questo caso fu osservato come la talassemia fosse presente in modo abbastanza diffuso fra le popolazioni della Malesia e dell’Indonesia. La presenza della talassemia in India fu invece osservata grazie agli studi condotti a Calcutta da Chatterjee. Aksoy invece trovò la presenza del morbo di Cooley in Turchia.

Intanto forme di talassemia erano state individuate anche nella popolazione nera dell’America a testimonianza della diffusione della malattia anche in questa razza.

Per concludere il quadro delle ricerche epidemiologiche vanno ricordati gli studi condotti da Fessas e dai suoi collaboratori in Grecia.

Alla fine degli anni ’50 risultava ormai chiaro che la talassemia è la più diffusa malattia genetica ereditaria del mondo, talmente diffusa che in alcune regioni del Mediterraneo e dell’Asia i portatori sani della malattia rappresentano il 15-20% della popolazione.

In quegli stessi anni vi furono i primi passi nella cura dei pazienti malati di talassemia. Iniziarono infatti le prime terapie trasfusionali. Per quanto riguarda l’Italia, pur mancando un documento ufficiale, il Prof. Ezio Silvestroni fu il primo a praticare le trasfusioni di sangue. Ciò, come ricorda la Prof. Bianco avvenne nella seconda metà degli anni ’40.

Su suggerimento di Silvestroni la terapia fu quindi adottata anche dal Prof. Ortolani a Ravenna. La terapie trasfusionale diede fin da subito dei discreti risultati, visto che i pazienti ad essa sottoposti invece di morire nei primi tre-quattro anni di vita riuscivano ora ad arrivare a dieci-dodici anni.

Il Prof. Menini ricorda a riguardo l’apertura, avvenuta nel 1955, del centro trasfusionale dell’Arcispedale S. Anna di Ferrara. In questo centro già dopo due mesi dall’inaugurazione venivano eseguite trecento trasfusioni al mese e quindi uno dei maggiori problemi fu la regolamentazione delle donazioni di sangue che erano diventate sempre più necessarie. In quel periodo ai donatori veniva prelevato sangue anche due o tre volte al mese col risultato che molti di questi donatori andavano incontro ad anemia o ipoproteinemia. In quel periodo inoltre i donatori spesse volte chiedevano ai malati di essere pagati o comunque di essere ricompensati con regali. Per risolvere il problema fu creata e potenziata l’Associazione dei donatori.

Sempre nel campo terapeutico bisogna ricordare che nel 1959 il Prof. Menini e il Prof. Vullo, il successore del Prof. Ortolani, tentarono un trapianto di midollo osseo su di una bambina malata di talassemia. Il trapianto però a causa dei tempi ancora prematuri e delle scarse conoscenze in tema di rigetto non andò a buon fine.

Gli anni ’50, grazie ad un rapido susseguirsi di scoperte, sono importanti anche per il passaggio dal livello di ricerca ematologico ad un livello di ricerca biochimico e subito dopo a quello genetico-biochimico.

Il risultato a cui si arrivò alla fine del decennio fu il modello teoretico delle basi genetiche della talassemia. Il modello venne messo a punto nel 1959 da Ingram e Stretton i quali ipotizzarono l’esistenza di due maggiori classi di talassemia: a e b, le quali prendono il nome dalle due maggiori parti dell’emoglobina che è appunto formata da catene a e da catene b.


Il risultato a cui pervennero Ingram e Stretton fu reso possibile dalle conoscenze accumulate grazie al lavoro di tanti differenti ricercatori. Ricercatori le cui scoperte si succedettero tanto rapidamente che è difficile deciderne le priorità e l’importanza.

Un aiuto importantissimo a queste ricerche fu costituito dalla messa a punto delle prime tecniche di studio elettroforetico dell’emoglobina, grazie alle quali, nel 1949, vi fu l’identificazione da parte di Pauling e Itano, dell’emoglobina S che è alla base dell’anemia falciforme.

Sempre nel 1949 vi furono gli studi genetici di Neel che dimostrarono che l’emoglobina S è ereditaria come un fattore mendeliano semplice e che chiarirono la genetica degli stati omozigoti ed eterozigoti.

Nel 1955 Kunkel e Wallenius descrissero una frazione minore dell’emoglobina che venne da loro chiamata emoglobina A2, sigla che sta per adulta di tipo 2, in questa frazione minore le due catene alfa si accompagnano a due catene delta. Nel 1956 Ingram scoprì che l’emoglobina consiste sempre in due paia di identiche catene, di cui una coppia è sempre di tipo alfa mentre la seconda è variabile.

Nella seconda metà degli anni ’50 giunsero vari contributi indicanti la grande varietà ed eterogeneità della talassemia: si scoprì che le emoglobine patologiche erano molte e che le anomalie potevano colpire ogni catena, non solo quelle di tipo beta. In questi anni venne anche scoperto che le emoglobine embrionale e fetale sono diverse fra di loro ed entrambe differiscono da quella adulta.


11. Il Centro di Studi della Microcitemia.

Grazie all’interesse suscitato dalle prime ricerche sulla talassemia il Prof. Silvestroni, nel 1952, riuscì ad ottenere dall’Alto Commissariato Igiene e Sanità la creazione di un Centro di Studi della Microcitemia a Roma.

Le difficoltà per trovare una sede al Centro furono superata grazie all’intervento del Prof. V. Puntoni, l’allora Preside della Facoltà di Medicina, il quale mise a disposizione del Centro dei locali presso l’Istituto di igiene dell’Università di Roma.

In quella sede Ezio Silvestroni e Ida Bianco poterono continuare i loro studi sulla talassemia organizzando inoltre l’assistenza ai malati avviando in collaborazione col Centro Trasfusionale del Policlinico Umberto I una regolare terapia trasfusionale.

Quando nel 1958 il Prof. Silvestroni divenne Primario del Reparto di Ematologia dell’Ospedale Sant’Eugenio si venne a creare anche verso questo ospedale una corrente di oltre 300 malati che, provenienti per lo più dall’Italia meridionale dove il sangue per le trasfusioni scarseggiava, si recavano periodicamente a Roma per sottoporsi alla terapia trasfusionale.

Nel 1961, avendo ottenuto il riconoscimento dal Ministero della Sanità di malattia sociale per il morbo di Cooley e la microcitemia, il Prof. Silvestroni fondò nel 1961 l’Associazione Nazionale per la lotta contro le Microcitemie in Italia, che rilevò la gestione del Centro di Studi della Microcitemia.

In base al DPR n.249 dell’11/2/1961 fu garantito all’Associazione il finanziamento statale. L’Associazione a sua volta si impegnò a creare in tutte le zone maggiormente colpite dalla talassemia dei Centri per la lotta contro la microcitemia.

Questa rete di Centri diffusa in molte zone d’Italia divenne subito operativa e ottenne dei risultati positivi.

Purtroppo nel 1972 l’intera organizzazione venne completamente sciolta a causa del nuovo ordinamento regionale che trasferiva le competenze in tema di malattie sociali dallo Stato alle Regioni.

Ciò significò l’interruzione di tutte le attività fino ad allora svolte dall’Associazione con gravi danni per l’assistenza ai malati e per le attività di prevenzione.

Lo stesso Centro di Studi per la Microcitemia di Roma, l’unico rimasto alle dirette dipendenze dell’Associazione Nazionale, dovette rimanere per due anni totalmente inattivo in attesa di ricevere i finanziamenti dalla regione Lazio.



12. La ricerca negli anni ’60.

Negli anni ’60 lo studio della talassemia, grazie al perfezionamento delle tecniche di ricerca e alla scoperta delle modalità di replicazione e di sintesi cellulare, raggiunse la possibilità di valutare i rapporti biosintetici relativi alle varie catene globiniche. Si raggiunse finalmente la possibilità di riprodurre in vitro i vari passaggi della sintesi delle catene globiniche, fatto questo che permise di capire a quale stadio sintetico potesse essere situato l’errore genetico e di che natura fosse l’effetto finale di questo errore, se di tipo qualitativo o quantitativo.

La tecnica messa a punto da Clegg e Weatherall nel 1965 consentì infatti di valutare comparativamente in vitro la sintesi delle catene alfa e beta nei portatori di talassemia, nei soggetti malati e nei soggetti sani.

Si poté così confermare quello che da allora viene considerato il denominatore comune della talassemia: lo sbilanciamento sintetico a/non a. Si scoprì allora che il gene malato provoca una diminuzione quantitativa nella sintesi delle catene che sarebbe deputato a produrre, ma l’effetto clinico, cioè la diminuita sopravvivenza del globulo rosso, è provocato dall’aumento relativo e apparente delle altre catene, quelle prodotte dai geni sani. Risultò infatti chiaro che le varie catene globiniche devono essere prodotte in modo armonico, rispettando determinati rapporti, perchè il globulo abbia una regolare funzione: per ogni coppia di catene alfa deve perciò esserci una coppia non alfa, cioè beta, gamma o delta; questo perchè possano appaiarsi e dare luogo ad una molecola emoglobina normale.

Nella talassemia beta, invece, si ha una diminuzione delle catene beta con un eccesso di catene alfa. Questa sproporzione, facendo aggregare le catene alfa tra di loro, crea legami chimici anormali i quali provocano alterazioni del globulo rosso che sono la causa dell’aumentata distruzione di quest’ultimo. Da ciò se ne dedusse che la gravità clinica sarà tanto maggiore quanto accentuato sarà lo sbilanciamento fra le catene globiniche.

Queste deduzioni sono ancora oggi valide: la gravità clinica dipende dallo sbilanciamento il quale a sua volta dipende dal difetto genetico. Lo sbilanciamento può cioè essere più o meno grave: nel portatore sano questo sbilanciamento è così lieve, in quanto il gene sano riesce a compensare lavorando di più, da essere clinicamente silente e rilevabile solo con esami di laboratorio specifici.

Un’altra importante scoperta degli anni ’60 fu la determinazione del numero dei geni globinici. Si accertò che su ogni cromosoma vi è un solo gene beta e un solo gene delta, mentre vi sono due geni gamma e due geni alfa, oltre ad altri due geni detti epsilon e zeta, necessari durante il periodo embrionale per la produzione delle prime emoglobine.

Sempre nel decennio preso in considerazione nel corrente paragrafo trova posto la ricerca ferrocinetica di Sturgeon e Finch, volta a capire come avvenisse l’aumento della distruzione dei globuli rossi.

Questa ricerca mise in evidenza come nella talassemia vi fosse un’altissima quota di eritropoiesi (produzione di globuli rossi) inefficace: la maggior quota di distruzione di globuli rossi avviene già nel midollo osseo, cioè prima ancora che possano entrare in circolazione. A causa di questo fattore il midollo osseo è costretto a lavorare molto ma del tutto inutilmente.

Il lavoro di Sturgeon e Finch permise quindi di identificare un altro dei fattori essenziali per comprendere la patogenesi delle sindromi talassemiche.

Diventava inoltre sempre più chiaro che la talassemia era causata da diversi gruppi di disordini. Per fare un esempio basti ricordare l’importante contributo di due ricercatori italiani, Russo e Mollica, che nel 1962 descrissero il caso di una famiglia di Reggio Calabria nella quale erano presenti tre anomalie ematologiche: due differenti tipi di talassemia uniti a falcemia.


13. La ricerca negli anni ’70.

Negli anni ’70 la maggior parte dei progressi raggiunti riguardano il campo terapeutico.

In primo luogo vi furono dei grossi miglioramenti nella terapia trasfusionale che veniva adottata fin dai primi anni ’50.

Inizialmente le trasfusioni venivano eseguite saltuariamente e solo quando l’emoglobina raggiungeva valori molto bassi (7-8 g/dl, invece dei valori normali di 12-15 g/dl). Così facendo la sopravvivenza dei giovani pazienti non andava però oltre i 12 o al massimo i 15 anni , la morte sopraggiungeva a causa delle complicanze dell’anemia cronica e delle trasfusioni.

In seguito, il miglioramento della qualità delle trasfusioni, rese possibile eseguirle con maggiore regolarità e con rischi ridotti. Divenne così evidente ai pediatri e agli ematologi che il mantenimento costante di valori di emoglobina superiori a 10-10,5 g/dl garantiva una qualità di vita maggiore e una più lunga sopravvivenza.

Se dunque negli anni ’70 vi fu un miglioramento della terapia trasfusionale sempre in questi anni si scoprì che questa stessa terapia trasfusionale provocava dei danni conseguenti all’accumulo di ferro: Il ferro veniva infatti introdotto nell’organismo attraverso le trasfusioni.

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio seguente si aggiunse perciò alla terapia trasfusionale la terapia ferrochelante, la quale permise di evitare molte complicanze e di aumentare l’età di sopravvivenza dei pazienti.

La terapia ferrochelante si fondava sulla scoperta di un farmaco costituito da una molecola in grado di catturare il ferro di deposito e di eliminarlo senza arrecare danni eccessivi all’organismo. Questa molecola, che viene tuttora utilizzata, si chiama desferrioxamina B.

Sul finire degli anni ’70 venne messa a punto una nuova tecnica di studio della globinosintesi in vitro, che richiedeva per la sua esecuzione il prelievo di una minima quantità di sangue.

Questa tecnica, unita ai progressi nelle tecniche ostetrico-ginecologiche, permise per la prima volta, attraverso il prelievo di una minima quantità di sangue fetale, di stimolare in laboratorio la produzione di catene globiniche del feto e diagnosticare quindi l’eventuale presenza della malattia. Si rendeva perciò possibile diagnosticare la presenza della malattia già nel feto; si trattava cioè della diagnosi prenatale.

Con questa tecnica si ottennero dei buoni risultati ma emersero anche gravi problemi: un discreto rischio di interruzione della gravidanza a seguito dell’intervento di funicolocentesi per il prelievo del sangue fetale, l’applicazione tardiva della metodica che poteva essere effettuata solo dopo la 20° settimana di gestazione, un certo margine di errore diagnostico. Questi problemi richiedevano il perfezionamento dell’intero procedimento di diagnosi prenatale a cui si è giunti in questi ultimi anni.

La diagnosi prenatale causò però anche delle dispute di ordine morale.

All’inizio degli anni ’70 incominciava infatti ufficialmente l’opera di prevenzione condotta da Ezio Silvestroni e Ida Bianco i quali ad una prevenzione che si basava sulla diagnosi prenatale preferirono impegnarsi in un lavoro di prevenzione prematrimoniale.

Per i due ricercatori era indispensabile far si che ogni singolo portatore di talassemia venisse individuato e informato dei rischi la cui prole sarebbe andata incontro se si fosse sposato con un altro portatore di talassemia.

La comunità medica e la maggior parte della popolazione ha però preferito affidarsi alla prevenzione prenatale accettando l’aborto entro i primi mesi qualora dalle analisi condotte sul feto fosse risultato che il figlio sarebbe nato malato di talassemia.

Silvestroni e Bianco insistettero comunque sulla loro strada e attraverso l’Associazione Nazionale per la Lotta Contro le Microcitemie in Italia, ottennero nel 1974 una convenzione con la Regione Lazio che permise di iniziare nell’ottobre del 1975 a condurre un piano regionale di prevenzione basato su due principali binari: l’informazione e le campagne di screening fra tutti i ragazzi di terza media del Lazio.

A distanza di venti anni nel Lazio, su un totale di più di un milione di studenti esaminati, di cui mediamente 50.000 ogni anno nelle scuole e 15.000 presso l’ambulatorio del Centro di Studi della Microcitemia, sono stati identificati 36.000 portatori sani di talassemia che equivalgono all’80% dei microcitemici che vivono nel Lazio.

Un altro risultato determinante che premia il lavoro svolto nel Lazio è il dato di fatto che già da tre anni in questa regione si è raggiunta una prevenzione totale, non sono cioè più nati soggetti malati di talassemia.

Questo risultato è stato raggiunto facendo uso anche della prevenzione prenatale e molti sono stati i feti malati che sono stati abortiti, ma di grande importanza è stata anche la prevenzione prematrimoniale anche perchè permette a due coniugi, che tramite essa sanno di essere microcitemici, di ricorrere per tempo ad un controllo prenatale sul feto.


14. La ricerca negli anni ’80.

Con gli anni ’80 lo studio della talassemia raggiunge il livello del DNA, cioè si giunge a conoscerne il suo assetto genetico. Da poco infatti siamo in grado di studiare non solo il prodotto dell’alterazione genetica ma anche l’assetto dello stesso gene alterato.

A questo risultato i genetisti vi sono arrivati in seguito a lunghi studi su quella serie di tappe e passaggi intermedi che avvengono all’interno delle nostre cellule e che permettono di tradurre il codice scritto nel DNA nel suo prodotto, in questo caso l’emoglobina.

Un passo fondamentale compiuto per raggiungere tale risultato è stata la possibilità di dosare la quantità di questi prodotti intermedi, fra cui l’RNA messaggero (mRNA). Si è infatti scoperto che molti difetti nella sintesi delle catene globiniche risiedono proprio nei passaggi intermedi ed è questa la ragione per cui la gravità dei quadri clinici è estremamente variabile. Oggi è possibile conoscere esattamente quale è la mutazione, dove si trova, a quale livello agisce e di quale entità è lo squilibrio della produzione di catene globiniche. E’ possibile inoltre prevedere quale sarà l’andamento clinico della sindrome talassemica.

Tutte queste conoscenze recentemente acquisite hanno reso possibile effettuare una diagnosi qualitativa molto precisa su ogni paziente prima ancora di iniziare la terapia; è una diagnosi che può dare delle valide indicazioni su quale sia il protocollo terapeutico più conveniente e più adatto, quale risposta potremo aspettarci da una splenectomia, quale prognosi potremo fare.

Tutte queste conoscenze sullo studio qualitativo del Dna sono utili anche per la diagnosi prenatale che viene decisamente migliorata rispetto al decennio precedente: infatti l’analisi diretta dei geni richiede pochissimo materiale biologico e può essere attuata su qualsiasi cellula e non solo sul sangue.

Per rendere più rapida la diagnosi è stato studiato un sistema che limita il campo di indagine: si studiano cioè le mutazioni dei genitori e le si vanno poi a cercare nel feto già alla 8°-10° settimana di gestazione, quindi con grande anticipo rispetto agli anni ’70. Se nel feto sono riscontrate entrambe le mutazioni è malato, se ne viene riscontrata solo una è un portatore sano di talassemia, mentre se ne risulta privo è completamente sano. Con questa tecnica vengono anche estremamente ridotti i rischi di interruzione di gravidanza.

Negli anni ’80 sono stati fatti dei grossi progressi anche nel campo terapeutico, dove, attraverso il trapianto del midollo osseo emopoietico, è stato reso finalmente possibile giungere alla completa guarigione dalla malattia.

I primi studi sul trapianto del midollo osseo risalgono al 1957 e vennero eseguiti a Seattle (U.S.A.), presso il Fred Hutchinson Cancer Research Center, dal dottor Donnal Thomas.

Senza la ciclosporina i primi trapianti non avevano grosse possibilità di successo, i primi fallimenti non fermarono però il dottor Thomas che continuò le sue ricerche con ottimi risultati. Thomas eseguì dapprima trapianti solo su pazienti immunocompressi, in cui quindi le possibilità di rigetto erano naturalmente ridotte, poi, grazie all’introduzione della ciclosporina iniziò a effettuare trapianti anche su pazienti affetti da leucemia e infine da talassemia.

Gli eccezionali progressi ottenuti da Donnal Thomas gli valsero, nel 1990, il premio Nobel per la medicina.

Il trapianto consiste nell’eliminare con farmaci mielotossici il midollo osseo del paziente e infondergli il midollo sano di un donatore compatibile; il nuovo midollo produce tutte le cellule del sangue e fra queste anche i globuli rossi sani. Come donatore si preferisce usare un fratello perchè la compatibilità è più completa rispetto ad un donatore non consanguineo e perciò è molto diminuito il rischio di rigetto.

Rimangono ancora oggi presenti i rischi correlati alla temporanea diminuzione delle difese immunitarie del soggetto trapiantato che viene provocata dai farmaci immunosopressori utilizzati per diminuire i rischi di rigetto del midollo trapiantato.

Fino ad oggi sono stati eseguiti, in oltre duecento centri in tutto il mondo, circa 45.000 trapianti di midollo su pazienti affetti da varie emopatie, congenite o acquisite e le probabilità di successo sono oggi superiori al 70%.



I protagonisti della talassemologia


La talassemia è dunque una malattia genetica di enorme diffusione in tutto il mondo. Una malattia che ha fatto la sua comparsa più di diecimila anni fa.

Da allora la talassemia è sempre stata una misteriosa compagna dell’uomo e delle sue sofferenze. Misteriosa rimase fino al 1925, anno in cui Thomas Cooley la identificò e ne diede un nome. Da quel momento la talassemia non finì certo di essere sofferenza per l’uomo, certamente però, con quell’anno, iniziò ad uscire da una coltre di mistero spessa diecimila anni. Finì di essere generica malattia, cessò di essere un fantasma mortale.

Ora che si sapeva cosa era, si poteva iniziare a combatterla.

E a combatterla furono decine ,centinaia, migliaia di medici e ricercatori che in tutti gli ospedali del mondo si resero e ancora si rendono protagonisti della lotta contro la talassemia.

Migliaia di medici che, chiusi in laboratorio o in giornaliero contatto con i loro giovani pazienti, generazione dopo generazione, hanno dedicato la loro vita a ricercare con ogni mezzo la via per sconfiggere la malattia.

La talassemia ancora non si è arresa, non è stata definitivamente sconfitta.

Se la guerra non è ancora stata vinta, di certo molte battaglie si sono chiuse vittoriosamente.

Gli sforzi di tanti medici hanno portato, come è stato visto, ha enormi passi avanti e al miglioramento della qualità e dell’aspettativa di vita dei loro giovani pazienti.

Non si deve ora dimenticare che i tanti medici che abbiamo fino a questo punto menzionato, i quali, assieme a tanti altri, si sono dedicati alla ricerca sulla talassemia hanno avuto la fortuna di avere dei pazienti davvero speciali.

Infatti, se nei libri i nomi di medici e ricercatori figurano come protagonisti, i veri eroi della lotta alla talassemia sono i loro pazienti che, sparsi a milioni in tutti gli ospedali del mondo, soffrono quotidianamente dei disagi della loro malattia.

Questi pazienti sono per lo più di giovane età: purtroppo fino a qualche anno fa le cure non riuscivano a prolungarne la vita oltre i vent’anni.

Questi ragazzi periodicamente, chi una volta al mese, chi più spesso, si devono sottoporre a lunghe trasfusioni di sangue. Distesi sul letto, l’ago nella vena, i più grandi leggono sulla sacca che contiene il sangue il nome del donatore. Se il sangue sembra “buono” lo ringraziano, se invece da dei problemi non gli risparmiano qualche rimbrotto. Può capitare a volte che il loro pensiero si faccia vincere dalla preoccupazione che quel sangue possa essere infettato da qualche terribile virus. I controlli sono severissimi ma un minimo rischio rimane. Purtroppo è un rischio che devono correre.

In ogni caso, in cuor loro, non possono che ringraziare quelle persone che in cambio di niente gli permettono di vivere.

Ogni sera, questi ragazzi, si portano nel letto un compagno fedele. Non si tratta di un orsacchiotto o per lo meno non solo di quello.

Quando per tutte le persone sane arriva il momento di dormire per i talassemici giunge anche il momento di sottoporsi alla terapia ferrochelante. Così dopo essersi lavati i denti, indossato il pigiama e chissà magari detta la preghierina, tutti questi ragazzi prima di coricarsi si introducono sotto la cute un sottile ago collegato ad un microinfusore che durante il sonno introduce lentamente il farmaco.

Mi hanno detto che tale meccanismo, che dai talassemici viene familiarmente chiamato “pompetta”, può essere sostituito da una pillola già esistente all’estero.

Mi hanno anche detto che tale pillola è molto cara.

Ora, io non sono un medico e probabilmente mi sfugge qualche cosa, ma se fosse solo un problema di soldi io penso che certo sarebbero soldi spesi bene.

Questi ragazzi, oltre a doversi sottoporre a trasfusioni e terapie ferrochelanti, devono non di rado affrontare altri problemi che possono coinvolgere a volte il cuore, a volte la milza, a volte lo sviluppo ormonale a volte anche la loro integrazione nel mondo esterno. Non sono neanche rare le volte in cui hanno visto loro amici portati via da quella stessa malattia contro cui stanno lottando.

A mio modo di vedere questi ragazzi avrebbero buone ragioni per essere quantomeno arrabbiati. Eppure, le volte che ho conosciuto uno di loro, ho notato che è molto più facile vederli sorridere che vederli arrabbiati.

Tutti loro hanno una grande forza interiore, una voglia di vivere, di gioire, di fare e di dare che difficilmente si ritrova nei loro coetanei sani.

Guardandoli appare evidente che loro hanno capito meglio di tante altre persone che la vita, se pur dura, vale la pena di essere vissuta per intero, hanno capito che tutto ciò che può dare la loro la giovinezza va spremuto fino in fondo, perchè, mai come nel loro caso, vale la pena di ricordare che del domani non c’è certezza.

Parlando con loro si impara che la voce, le parole, sono veramente un gran bel mezzo con cui trasmettere i sentimenti siano essi di amicizia, di amore o di rabbia.

In loro vi è un grande desiderio di comunicare. La loro è una comunicazione schietta, che ha il solo fine di esprimere i propri sentimenti e di cogliere quelli dell’interlocutore. Quando parlano non una sola parola va sprecata.

Questi straordinari ragazzi, nell’avversità della fortuna, sono i veri eroi loro malgrado della lotta fra l’uomo e la malattia.

Fin dal momento in cui mi sono dedicato a questo lavoro ho sentito il bisogno di dedicare un pensiero e qualche riga ai malati di talassemia, a quelli che personalmente conosco e a quelli di tutto il mondo lottano contro la loro malattia. Ora posso tornare agli uomini che si sono dati da fare per sconfiggerla.

Parlando di talassemia o morbo di Cooley non si può che partire da lui, Thomas B. Cooley l’uomo che con i suoi studi ha dato il nome alla malattia.


Thomas B. Cooley nacque nel 1871 a Ann Arbor, cittadina degli Stati Uniti d’America. La sua nazionalità lo pose ben lontano dai luoghi in cui la malattia da lui scoperta era maggiormente diffusa. L’educazione che ebbe fu però tutt’altro che provinciale ma, piuttosto, aperta alla conoscenza delle culture europee, tale educazione gli permise di vedere oltre ciò che accadeva nel giardinetto di casa.

Cooley apparteneva ad una famiglia molto colta, suo padre daltronde, quale giudice della corte suprema del Michigan e rettore della facoltà di legge, era uno dei giuristi più affermati dell’epoca.

Il padre di Thomas dedicò sempre molta cura all’educazione del figlio, assicurandosi che questi potesse avere un’educazione al tempo stesso classica e moderna. Badando anche di riuscire a trasmettere al figlio la grande libertà di vedute che lo contraddistingueva.

Thomas nel corso dei suoi studi ebbe anche la possibilità di imparare alcune lingue straniere fra le quali l’italiano, ciò gli diede una volta di più la possibilità di conoscere la nostra cultura.

Laureatosi in medicina all’University of Michigan, trascorse i primi anni di tirocinio a fare pratica presso centri di malattie infettive e di igiene. In seguito intraprese la carriera pediatrica.

Le sue capacità lo distinsero presto, tanto che divenne professore di pediatria presso il College of medicine of Wayme University e ottenne la direzione del Children’s Hospital of Michigan.

Il 1925 fu l’anno che fece entrare il nome di Cooley in tutti i libri di medicina.

In quell’anno infatti il dottor Thomas Cooley diede il suo importantissimo contributo alla ricerca sulla talassemia. Per primo, infatti, individuò e descrisse nei suoi aspetti caratteristici cinque casi di talassemia. Le sue osservazione vennero pubblicate in una pagina della rivista ” Transaction of the American Pediatry Society” con il titolo: “Una serie di casi di splenomegalia in bambini con anemia e mutamenti ossei”.

La sua grande dedizione nel campo della pediatria lo indusse a fondare l’American Accademy of Pediatrics di cui fu anche presidente. I suoi meriti gli valsero infine nel 1941 la presidenza della American Pediatrics Society.

Malgrado questi titoli e l’indiscusso valore del suo lavoro, è stato osservato che egli non percorse la fulgente carriera di alcuni suoi colleghi. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che Cooley, grande uomo di scienza ma non altrettanto buon politico, trascurò di coltivare i necessari rapporti negli ambienti accademici.

Quando la morte lo colse nel 1945 si trovava ormai in condizioni economiche non floride e pressoché dimenticato dai suoi concittadini.

Se dunque le prime diagnosi di talassemia avvennero in America, dove per altro vi era una ridottissima frequenza di talassemici, in Italia i primi passi in quel campo furono compiuti da un gruppo di ricercatori che operava a Ferrara.

La regione che circondava Ferrara era stata per secoli colpita dalla malaria, tale fattore aveva favorito una grande diffusione di talassemici. Nel secondo ventennio del nostro secolo i casi di talassemia fra la popolazione ferrarese erano perciò piuttosto frequenti. Per rendersene conto si possono osservare i primi dati sulla frequenza della talassemia nella regione che furono raccolti da Silvestroni e Bianco nel dopoguerra e indicano una percentuale di portatori del 7,4% in città e del 12,7 in provincia.

Queste cifre fanno supporre che non doveva essere particolarmente difficile per i medici ferraresi imbattersi in casi di talassemia.

Questa è sicuramente una valida ragione per capire come mai in quella piccola città di provincia, stretta nelle sue antiche mura e nel ricordo del suo ricco passato vennero compiuti tanti passi importanti nello studio della talassemia.

Il primato di Ferrara nel campo della talassemologia iniziò nel 1925 con la descrizione fatta da Rietti dell’ittero emolitico con resistenza globulare aumentata e proseguì con la prima descrizione europea di un caso di talassemia pubblicata da Ravenna nel 1934.

Erano gli anni della Ferrara descritta da Bassani, la città viveva un periodo di prosperità e la numerosa e ricca comunità ebraica, integrata con l’alta borghesia locale, contribuiva certo allo sviluppo della città.

Presto il clima mutò. Nel 1934, lo stesso anno della pubblicazione fatta da Ravenna, il regime fascista avviò la campagna antisemita per mano di Farinacci e Interlandi.

Il 17 novembre del 1938 venne promulgata la legislazione razziale: fra gli altri provvedimenti gli ebrei furono allontanati dalle scuole superiori, esclusi dall’insegnamento e dalle cariche pubbliche. Di lì a poco sarebbe iniziata la guerra e con essa le deportazioni e lo sterminio della popolazione ebraica.

Ancora pochi anni e a Ferrara sarebbe divampata la guerra civile, sul finire del 1943 ci fu infatti l’uccisione del segretario del partito fascista di Ferrara subito vendicata dal massacro di 17 antifascisti. Non era che l’inizio di una serie di omicidi e vendette fratricide che colpirono Ferrara come la maggior parte d’Italia..

Alla fine della guerra Ferrara oltre alla prosperità di un decennio prima aveva ormai perso anche il primato nello studio della talassemologia. Ciò può essere testimoniato dall’appello lanciato nel 1946 da Ortolani, direttore dell’istituto provinciale per l’infanzia di Ferrara, affinché le scuole mediche di tutta Italia inviassero a Ferrara studiosi che proseguissero gli studi sulla talassemia.

La città non era quindi più in grado di fornire le nuove leve di ricercatori e il primato Italiano nella ricerca sulla talassemia passò probabilmente a Roma, città dove operava la coppia di ricercatori composta da Ezio Silvestroni e Ida Bianco.

Torniamo per il momento a Ferrara per incontrare Luzzato, il fondatore della scuola ematologica della città.


Alberto Michelangelo Luzzato nacque a Venezia il 4 febbraio 1874.

Nel 1895 si laureò in medicina presso la Regia Università di Padova alla precoce età di 21 anni.

Divenne poi assistente nell’Ospedale di Venezia nella sezione medica che era diretta da suo padre. il Prof. Marco Luzzato.

Nel frattempo continuò a sviluppare la sua formazione medica frequentando vari istituti italiani ed europei.

A tal fine si recò in Germania dove studiò alla scuola berlinese di Oppenheim, Salkowski e Senator.

Dopo la Germania si spostò a Strasburgo dove i suoi maestri furono Von Recklinghausen, Naunyn e Hofmeister.

Per ultimo si recò a Torino dove ebbe l’occasione di seguire le lezioni di Bizzozzero.

Nel 1907 vinse il concorso per il posto di primario medico dell’Arcispedale S. Anna di Ferrara, posto che conservò fino alla morte.

In questo Ospedale fondò e diresse il laboratorio di analisi cliniche che oggi porta il suo nome.

Si occupò con grande competenza di molti settori di ricerca appartenenti alla patologia generale e speciale, alla neuropatologia, alla biochimica, alla clinica, alla anatomia e istologia patologica.

Nel 1909 iniziò le ricerche nel campo ematologico intraprendendo studi sulle “emazie granulose”. Durante queste ricerche gli fu collaboratore Ferruccio Ravenna che ne raccolse l’eredità scientifica.

Scrisse oltre 60 pubblicazioni.

Alla scuola di A.M. Luzzato si formarono numerosi allievi fra i quali va ricordato, oltre al già nominato Ravenna, Fernando Rietti. Si può per tanto sostenere che Luzzato fu l’iniziatore degli importanti studi di ematologia di Ferrara.

Nel 1922, A.M. Luzzato, partecipò ai concorsi per le cattedre di Patologia Medica. In tali concorsi, pur venendo dichiarato “lodevolmente maturo”, non riuscì a conseguire il successo accademico.

A.M. Luzzato morì all’età di 50 anni, il 13 luglio 1924.

E’ stato dunque detto che, per quanto riguarda il campo qui preso in considerazione, i suoi più importanti allievi furono Ravenna e Rietti. Ecco dunque alcune notizie sulla vita e le ricerche di questi due studiosi ferraresi.


Ferruccio Ravenna, allievo di Luzzato, fu medico clinico e ricercatore di grandi qualità. Il maggior contributo che diete alla talassemologia è senza dubbio la sua opera dal titolo: “Una forma nuova di grande anemia infantile associata ad osteoporosi diffusa”.

Questa opera, pubblicata nel 1934 in collaborazione con C. Cannella, è la prima descrizione europea di un bambino affetto da anemia di Cooley.

Ravenna nacque a Ferrara il 31 marzo 1882.

Si laureò nella Regia Università di Firenze il 12 luglio 1905, da quell’anno fino al 1907 fu assistente onorario all’Istituto di anatomia presso l’Ospedale Civile di Venezia.

Dal 1907 al 1908 fu assistente effettivo di Patologia Generale alla Università di Bologna.

Dal 1908 al 1912 fu assistente volontario all’Università di Pisa, presso la Clinica Medica, dove ottenne l’insegnamento di Semeiotica Medica.

Nel 1911 conseguì la libera docenza in Patologia Medica.

Tra il 1912 e il 1918 fu assistente di Clinica Medica a Parma dove dal 1916 al 1924 ebbe l’incarico per la Patologia Medica su proposta della facoltà parmense.

Nel 1921 vinse l’incarico di Patologia Medica presso l’Università di Camerino.

Dal 1921 al 1925 fu primario medico a Piacenza.

Dal 1926, avendo vinto il pubblico concorso, divenne primario all’Arcispedale S. Anna di Ferrara. Tra il 1939 e il 1945, a causa delle leggi razziali già menzionate, venne dispensato dal servizio.

Nel 1945 riottiene il suo incarico e l’anno seguente viene nominato direttore sanitario dell’Ospedale.

Nel 1947 viene messo a riposo per raggiunti limiti di età ma non essendo ancora stato fatto il concorso per il suo successore rimane in effetti in servizio fino al 1952.

Il primo di agosto di quell’anno venne collocato definitivamente a riposo con il titolo di “Primario Ospedaliero Emerito”.

Ravenna morì settantanovenne il 2 aprile 1961 in una stanza del suo Arcispedale S.Anna.


Fernando Rietti fu anch’esso allievo di A.M. Luzzato.

Medico e scienziato noto in Italia e all’estero è per noi di grande importanza la sua pubblicazione del 1925, la prima descrizione in senso assoluto di un caso di talassemia eterozigote in malati adulti. Questa malattia fu da lui chiamata “ittero emolitico con resistenza globulare aumentata” e nota anche come sindrome di Rietti-Greppi-Micheli, dal nome di altri due ricercatori che integrarono le sue osservazioni.

Fernando Rietti nacque a Ferrara il 12 settembre 1890.

Iniziò i suoi studi di Medicina presso l’Università di Ferrara per poi trasferirsi presso la Regia Università di Firenze dove si laureò nel 1914.

Tra il 1914 e il 1915 fu aiuto alla Cattedra di Patologia Generale dell’Università di Ferrara.

Finita la Grande Guerra fu, dal 1919 al 1924, assistente nella Sezione Medica e nel Laboratorio dell’Arcispedale S.Anna di Ferrara.

Nei bienni 1924-’25 e 1944-’45 fu nominato Dirigente del medesimo Laboratorio.

Nel 1925 fondò e diresse il Centro di accertamento istologico dei tumori di Ferrara.

Nel 1925 ottenne la libera docenza in Patologia Speciale Medica e nel 1931 quella in Clinica Medica. Esercitò entrambe queste docenze, alternativamente, presso l’Università di Bologna.

Nel 1952 ricevette l’incarico di insegnamento della Patologia Speciale Medica e Metodologia Clinica presso l’Università di Ferrara.

Nel corso della sua carriera produsse 85 pubblicazioni fra le quali , nel 1925, la già ricordata pubblicazione sugli ittero emolitici.

Ferdinando Rietti morì a Padova il 3 gennaio 1954 all’età di 65 anni.

Un autore che pur non avendo operato a Ferrara si dedicò agli stessi studi di Rietti e il cui nome insieme a quello di Micheli e dello stesso Rietti viene utilizzato per indicare la malattia da ittero emolitico con resistenza globulare aumentata è Greppi.


Enrico Greppi nacque a Bologna nel 1896 da famiglia lombarda.

Allievo di Guido Bandi, dovette interrompere gli studi per partecipare come alpino alla prima guerra mondiale, durante la quale meritò una medaglia di bronzo e una d’argento.

Ripresi gli studi si laureò a Firenze nel 1921.

Dopo la laurea si trasferì a Pavia dove, per 12 anni, ebbe come maestro Luigi Zoja che seguì anche a Milano. Durante questo periodo si recò a Berlino per seguire studi di chimico-fisica alla scuola di Michaelis-Rona.

Nel 1933 lo troviamo all’Università di Catania; nel 1935 è invece a Siena dove rimase per 4 anni prima di trasferirsi a Firenze come successore di Ferruccio Schupfer presso la clinica Medica.

Le pubblicazioni di Greppi superano le duecento e riguardano i più vari campi.

Greppi trovò motivi di interesse in ogni campo della medicina., dedicando particolare attenzione a tutti i quadri sintomatici attenuati, alle alterazioni parziali, alle piccole patologie d’organo di cui sono tipica espressione i malati di ambulatorio. In questo modo anche il suo apporto nel campo della talassemologia riguarda una forma intermedia, una sindrome emolitica atipica chiamata malattia di Rietti-Greppi-Micheli.

Greppi assieme a Rietti, a Ravenna, a Cooley e a tanti altri apparteneva alla prima generazione di ricercatori che si imbatterono nella talassemia. Il loro lavoro fu poi proseguito dalla generazione successiva. Durante questa nuova generazione il primato delle ricerche passò da Ferrara a Roma, da Rietti e Ravenna a Silvestroni e Bianco.

Fra i coniugi Silvestroni e Bianco probabilmente i meriti scientifici maggiori spettano a Silvestroni, il maestro, ma è certo che anche la moglie allieva Ida Bianco ha dedicato tanti sforzi alla lotta contro la talassemia.

Sono passati un paio di anni da quando ebbi modo di incontrarla presso il suo centro di Roma per gli Studi della Microcitemia. Di quell’incontro serbo ancora un commosso ricordo; il ricordo di una donna ormai ottantenne che, indosso il camice bianco, ancora si dedicava alle sue ricerche, a quelle ricerche che l’hanno accompagnata per tutta la vita. Prima in compagnia di suo marito e poi proseguendo da sola, per amore della scienza, per amore dei suoi giovani pazienti.


Ida Bianco è nata a Roma il 30 luglio 1917.

Nell’ottobre del 1939 entra come allieva interna nella Clinica Medica per preparare la Tesi e per fare il tirocinio. Direttore della Clinica era il Prof. Frugoni.

Il 19 ottobre 1939 è stato dunque il suo primo giorno di lavoro in Clinica, ma è stato anche il giorno in cui conobbe Ezio Silvestroni, dal quale non si sarebbe più separata nel lavoro come nella vita.

Il 2 luglio 1941 si è laureata con la lode. Ida Bianco ricorda però che quello non fu un giorno lieto. Essendo infatti l’Italia entrata in guerra, il padre, richiamato alle armi si trovava a Udine, il fratello era in servizio presso l’aeroporto di Guidonia e Silvestroni si trovava sul fronte orientale.

Durante tutta la guerra, fino al 1951, Bianco è stata presso la Clinica come Assistente Volontaria, poi , dal 1951 al 1957 come Assistente di ruolo.

Per tutto il periodo della guerra Bianco non ha, dunque, mai abbandonato la Clinica e molto vivo nei suoi ricordi è il bombardamento aereo del 19 luglio 1943. Un bombardamento che colpì il quartiere Tiburtino e che la sorprese fra le corsie della Clinica.

Il 26 novembre 1943 Bianco e Silvestroni hanno descritto, in una comunicazione fatta all’Accademia di Roma, casi di microcitemia, la forma eterozigote della talassemia.

Importante scoperta attraverso la quale avrebbero poi intuito l’ereditarietà della talassemia.

Fra il 1943 e il ’44, approfittando di parenti di malati o di persone che, causa la Guerra, si rifugiavano in Clinica per la fame o perchè senza tetto, Bianco ha analizzato 1.100 soggetti.

Nel 1947 ha conseguito la specializzazione in Clinica Medica Generale e Terapia Medica.

Fra il 1946 al 1960 ha messo in luce, attraverso una vasta serie di ricerche sulla popolazione, la distribuzione, la frequenza e l’importanza sociale della talassemia.

In questi anni nei periodi estivi, è stata ospite del Prof. Ortolani presso l’Istituto Provinciale per l’Infanzia di Ferrara.

Nel 1956 il Prof. Di Guglielmo lasciò la direzione della Clinica Medica al Prof. Condorelli che nel 1957 licenziò i nove vecchi assistenti fra i quali I. Bianco.

Il licenziamento di Ida Bianco venne così motivato dal Prof. Condorelli. “… mi è necessario sostituire questo assistente con altro collaboratore che sia compenetrato nell’indirizzo scientifico della mia scuola, mentre la suddetta ha avuto orientamento scientifici del tutto differente”.

Bianco ha fatto ricorso al licenziamento rimanendo però sospesa per quattro anni dal servizio. Nel 1963 il ricorso è stato accolto e nel 1966 Ida Bianco è andata in pensione.

Nel frattempo, quando nel 1957 ha interrotto la carriera universitaria, ha iniziato a lavorare presso il Centro della Microcitemia di Roma, fondato dal marito, Ezio Silvestroni, nel 1952, grazie all’interessamento dell’Alto Commissariato Igiene e Sanità e al Prof. V. Puntoni, Preside della Facoltà di medicina.

Negli anni ’60 ha collaborato con il Prof. Silvestroni alla creazione di una rete nazionale di Centri della Microcitemia e ha posto le basi per la prevenzione della talassemia in tutto il territorio nazionale.

La dottoressa Bianco ha al suo attivo una numerosissima serie di pubblicazioni nel campo dell’assistenza ai malati di talassemia, dello studio delle complicanze e del controllo della malattia.

Attualmente Ida Bianco è, da quasi venti anni, alla guida del Centro di Studi della Microcitemia di Roma.